Diritto di controllo del socio-consigliere di s.r.l.
Diritto di controllo del socio-consigliere di s.r.l.
Trib. Venezia, 3 novembre 2022. La pronuncia si segnala perché rappresenta uno dei rari interventi editi della giurisprudenza (ma v. pure, in anni recenti, Cass. n. 2038/2018, in Giur. it., 2018, p. 1434 ss.) in materia di diritto di controllo del socio di s.r.l. che sia anche amministratore. Nel caso di specie, un socio al 50% di una s.r.l., anche amministratore delegato, proponeva ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c. al fine di poter accedere alla documentazione sociale, che lamentava essergli stata negata da parte dell’altro socio, a sua volta pure amministratore delegato. Il Giudice veneziano ha accolto parzialmente la domanda, ordinando alla società resistente l’esibizione di alcuni tra i documenti richiesti da parte ricorrente (i.e., l’elenco dei nominativi e i contatti dei giornalisti con i quali la società intrattiene rapporti e la relativa documentazione contrattuale, i contratti con alcuni fornitori e tutta la documentazione riguardante i rapporti con un Comune).
Sul tema, per meglio inquadrare la decisione in esame, va tenuto presente il principio di diritto (espressamente citato dal Tribunale) che era stato in precedenza affermato dalla citata pronuncia di Cassazione, secondo la quale: “compete anche al socio-amministratore di s.r.l. il diritto, previsto dall’art. 2476, secondo comma, cod. civ., di ricevere notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare i libri ed i documenti relativi alla gestione societaria compiuta dagli amministratori, cui egli non abbia in tutto o in parte partecipato”. In particolare, va notato che con tale arresto la s. Corte ha fondato il diritto di controllo del socio-amministratore di s.r.l. direttamente nell’art. 2476, comma 2°, c.c., benché la lettera della norma si riferisca espressamente ai soli “i soci che non partecipano all’amministrazione”.
Una simile posizione non è però pacificamente condivisa dalla dottrina. In proposito, è stato da alcuni evidenziato che la funzione amministrativa impone senz’altro ai soci consiglieri il potere-dovere di vigilare sulla gestione della società (e, quindi, di accedere alla documentazione sociale e di ottenere informazioni dagli amministratori al fine di poter adempiere a tale compito): ma ciò costituisce appunto un dovere e non un diritto degli stessi. E va ulteriormente rilevato che, seguendo una tale indicazione, la conseguenza dovrebbe allora essere che il diritto-dovere di richiedere informazioni e di consultare i documenti sociali riconosciuto in capo al socio-consigliere trovi fondamento e disciplina nelle norme previste per l’esercizio della funzione gestoria, e dunque nell’art. 2381 c.c., applicabile anche alle s.r.l. in ragione del richiamo espresso dall’art. 2475, ult. comma, c.c. Quale ulteriore corollario di un simile percorso pare di doversi riconoscere al potere-dovere di controllo dei soci amministratori la stessa estensione, anche quanto a modalità di esercizio, di quello che compete ai consiglieri dell’organo amministrativo di società per azioni. Ciò, col problema dei limiti entro i quali possa applicarsi alla s.r.l. il disposto dell’art. 2381, comma 6°, c.c.: ed è chiaro che, ove la risposta sia positiva, il singolo amministratore potrà accedere alle informazioni societarie solo nella sede consiliare e per via dell’istruttoria operata a cura del presidente. Altra parte della dottrina ha invece condiviso l’orientamento di legittimità, ritenendo che l’esclusione del socio-amministratore dal perimetro di applicazione del diritto in parola porterebbe ad un risultato incongruo, in quanto così facendo il socio amministratore avrebbe poteri più circoscritti del socio non amministratore (che, come noto, può anche ad es. avvalersi di un consulente). La conclusione sarebbe inoltre suffragata dalla recente modifica normativa dell’art. 2475 c.c., introdotta dal Codice della Crisi: al riguardo viene detto che la norma, là dove richiama l’art. 2381 c.c. “in quanto compatibile”, mirerebbe proprio ad escludere l’applicabilità del comma 6° alle s.r.l. per evitare il paradosso. Infine, al fine di confermare o escludere l’applicabilità della norma in tema di dialogo intra-consiliare nelle s.p.a. alle s.r.l., altri autori sembrano dare particolare risalto all’atteggiarsi concreto dell’organizzazione statutaria di questa, ossia: al modello di amministrazione adottato, alla circostanza che si sia fatto ricorso o meno all’istituto delle deleghe consiliari, all’eventuale richiamo operato nello statuto all’art. 2381 c.c. Se si accoglie questa impostazione, ciò non significa però ridurre il diritto di controllo del socio amministratore, ma solo precisare le forme e i modi con i quali i documenti e le notizie sono a volta a volta consultabili o ricevibili dal socio.
In tale quadro, va ora inserita la pronuncia allegata, la quale esprime una posizione riconducibile a quella dell’ultimo orientamento dottrinale riferito. L’ordinanza afferma infatti che il principio enunciato dalla suddetta Cassazione “debba essere interpretato prendendo le mosse dalla lettura integrale della sentenza” e, in particolare, da quei passaggi della motivazione in cui si segnala che il diritto di consultazione e di informazione del socio-amministratore sia analogo ma più intenso di quello del socio e che il relativo fondamento non possa essere rintracciato “sic et simpliciter” nell’art. 2476, comma 2, c.c. Per il Tribunale, quindi, dalla sentenza di legittimità andrebbe desunto che l’amministratore “ha il diritto-dovere di rivolgersi agli altri amministratori per chiedere loro informazioni relative all’attività che esulino dal perimetro delle proprie deleghe o alle quali non abbia partecipato”.
Riferimenti:
- In generale, sul contenuto e i limiti del diritto di consultazione ex art. 2476 c.c., ex multis, cfr.: AMBROSINI, 2476 c.c., in Commentario Niccolini-Stagno D’Alcontres, Napoli, 2004, p. 1586 ss.; ABRIANI, I controlli, in Commentario Ibba-Marasà, Milano, 2020, p. 2036 ss.; ANGELILLIS-SANDRELLI, Art. 2476 c.c., in Commentario Marchetti, Milano, 2008, p. 665 ss.; BUTA, I diritti di controllo del socio di s.r.l., in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Campobasso, diretto da Abbadessa-Portale, 3, Torino, 2007, p. 585 ss.; PRESTI, Il diritto di controllo dei soci non amministratori, in S.r.l. Commentario dedicato a Portale, Milano, 2011, p. 650 ss.; ZANARONE, Della società a responsabilità limitata, in Il codice civile. Commentario, fondato da Schlesinger e diretto da Busnelli, Milano, 2010, p. 1105 ss., GUIDOTTI, Ancora sui limiti all’esercizio dei diritti di controllo nella s.r.l. e sul (preteso) diritto di ottenere copia dei documenti consultati, in Giur. comm., 2008, II, p. 218 ss.; RICCIARDIELLO, L’inerenza del diritto di controllo del socio non amministratore di s.r.l. al potere gestorio, ivi, p. 228 ss.
- In giurisprudenza, per l’orientamento contrario all’applicazione dell’art. 2476, comma 2°, c.c. al socio-amministratore, v. anche: Trib. Napoli, 13.08.2009, in Società, 2010, p. 1129 ss., secondo cui: “l’amministratore della società … non ha bisogno di esercitare i diritti di controllo previsti dalla norma in esame: anzi, ha, più che il diritto, il dovere di vigilare (delegato o meno che sia) sulla gestione della società e l’operato degli altri amministratori acquisendo ed esaminando – … non certo attraverso l’esercizio di un diritto del socio quale quello previsto dall’art. 2476, comma 2, c.c., specie se si considera che alla vigilanza è tenuto pur quando, come è ben possibile a norma dell’art. 2475 c.c., non sia socio della società – tutti i documenti sociali a tal fine utili o necessari”. In dottrina, v. in particolare ZANARONE; cit., p. 1113 s.
- Favorevoli all’applicazione dell’art. 2476, comma 2°, c.c. anche al socio-amministratore e alla disapplicazione dell’art. 2381, comma 6° c.c. nelle s.r.l., cfr.: MOSCO, in Commentario Ibba-Marasà, p. 1670 s.; ABRIANI - ROSSI, Nuova disciplina della crisi di impresa e modificazioni del codice civile: prime letture, in Società, 2019, p. 404; MONTALENTI, L’amministrazione delegata nelle società a responsabilità limitata, in Le società a responsabilità limitata: un modello transtipico alla prova del Codice della Crisi, a cura di Irrera, Torino, 2020, p. 632.
Trib_Venezia_03112022
Normativa emergenziale in materia di aumento di capitale e abuso di maggioranza
Normativa emergenziale in materia di aumento di capitale e abuso di maggioranza
Trib. Venezia, 13 settembre 2021. Si segnala una pronuncia interessante per l’applicazione del divieto di abuso di maggioranza in materia di normativa emergenziale sull’aumento di capitale.
Nel caso di specie, l’applicazione della normativa emergenziale ex art. 44 del d.l. 76/2020 c.d. “Decreto Semplificazioni” (conv. in l. 120/2020) – che, come noto, ha derogato fino al 30.06.2021 alle norme in materia di quorum assembleari, ritenendo sufficiente per l’approvazione dell’aumento di capitale il voto favorevole della maggioranza del capitale rappresentato in assemblea, anche qualora lo statuto preveda maggioranze più elevate – aveva condotto i soci portatori del 66% del capitale sociale di una s.r.l. a deliberare un aumento di capitale senza il rispetto della clausola statutaria, la quale imponeva una maggioranza pari all’80%.
Nel provvedimento allegato, ai fini della concessione della sospensiva ex artt. 2378 e 2479-ter c.c., il giudice ha riconosciuto l’utilizzo abusivo della normativa, ritenendo che essa sia stata strumentalmente applicata dalla maggioranza al fine di arrecare un danno al socio di minoranza. In particolare, nell’ordinanza viene riconosciuto che, in termini astratti, la normativa emergenziale sull’aumento di capitale ha portata generale ed è pertanto svincolata da presupposti specifici, sicché essa è applicabile anche in quei casi in cui – come quello di specie – l’aumento di capitale non sia preordinato a coprire una perdita. Tuttavia, nella fattispecie in esame il giudice ha ritenuto in concreto provato l’abuso sulla base del ragionamento che, benché sia astrattamente vero che la ratio della normativa emergenziale è quella di favorire l’apporto di nuovo capitale, essenziale all’impresa, da parte dei soci in un momento di grave crisi economica determinata dall’evento pandemico, nella specie è mancata in concreto la dimostrazione di tale essenzialità, atteso che: i) l’aumento di capitale (da €10.000,00 a €80.000,00) ammontava a una cifra quasi doppia rispetto all’urgenza finanziaria ravvisata dagli amministratori, quale risultante dal verbale del c.d.a. e ii) si era previsto il versamento immediato, al momento della sottoscrizione, solo del 25% del nuovo capitale, omettendo qualsiasi ulteriore disposizione riguardo alle modalità e tempistiche del versamento del residuo 75%, di cui è sembrato non emergere alcuna esigenza.
Si tratta pertanto di elementi da cui il giudice ricava potersi ritenere indirettamente provato il fine diluitivo dell’aumento di capitale; ciò, sulla base anche della circostanza aggiuntiva che i soci di maggioranza nella specie potevano considerarsi essere nella posizione di sapere che il socio di minoranza non sarebbe stato in grado di sottoscrivere l’aumento di capitale. Il fine fraudolento viene così indicato nell’essere stata l’operazione essenzialmente preordinata a ridurre la percentuale del socio di minoranza al di sotto della misura del 20%: vale a dire, sotto la soglia statutariamente necessaria al fine di consentire al socio di minoranza di opporsi alle decisioni rilevanti.
Sul generale tema dell’abuso di maggioranza, va ricordato che l’aumento di capitale rappresenta una vicenda tradizionalmente ritenuta – tanto in dottrina quanto in giurisprudenza – una potenziale occasione di integrazione di tale condotta, proprio nella misura in cui l’operazione si presta alla realizzazione di un programma diluitivo. E’ noto, poi, che l’“abuso” del diritto di voto è reputato illecito, a seconda delle ricostruzioni volta a volta seguite da quanti se ne sono occupati, a vario titolo: ora perché contrastante con il principio di buona fede e correttezza (ed è, come risaputo, la posizione su cui si è assestata dagli anni ’90 la Corte di Cassazione), ora in quanto integrativo di un eccesso di potere, ora poiché ritenuto frontalmente contrario a un generale divieto di abuso del diritto. Se sempre si segnala, peraltro, la difficoltà della prova dell’intento di danno, nel caso di specie è rilevante evidenziare che secondo i Giudici Veneziani tale prova risulta però facilitata dall’applicazione della normativa emergenziale, considerata invocabile per la finalità specifica di aiutare le imprese a reperire risorse economiche essenziali in un delicato momento storico: cosicché, là dove una tale esigenza si reputi non provata in concreto, dovrà presumersi l’intento fraudolento.
In relazione al punto della sospensione ex artt. 2378 e 2479-ter c.c. è opportuno segnalare che l’ordinanza si limita a disporla, senza porsi il problema delle sue conseguenze. Si tratta però di un tema tutt’altro che irrilevante, posto che secondo la migliore dottrina l’aumento di capitale eseguito non può invalidarsi con effetti ex tunc: sicché, il provvedimento del giudice – anche là dove si ritenga esso possa avere natura “anticipatoria” rispetto pronuncia di merito sull’impugnazione della delibera – non può impedire un effetto già prodottosi (la creazione di nuovo capitale), né di per sé rimuoverlo (altrimenti, anziché di sospensione dovrebbe parlarsi di vera e propria revoca).
Riferimenti:
- Sul generale tema dell’abuso di maggioranza, anche in relazione alle sue manifestazioni tipiche, quali le operazioni di aumento di capitale dilutive: ex multis, GAMBINO, Il principio di correttezza nell’ordinamento delle società per azioni, Milano, 1987; CASSOTTANA, L’abuso di potere a danno della minoranza assembleare, Milano, 1991; PREITE, L’abuso della regola di maggioranza nelle deliberazioni assembleari delle società per azioni, Milano, 1992; JAEGER-ANGELICI-GAMBINO-COSTI-CORSI, Commento a Cass. n. 11151/1995, in Giur. comm., 1996, p. 329 ss.; DENOZZA, Quattro variazioni sul tema: “contratto, impresa e società nel pensiero di Carlo Angelici”, in Giur. comm., 2013, I, p. 480 ss.; LIBERTINI, Ancora in tema di contratto, impresa e società. Un commento a Francesco Denozza, in difesa dello “istituzionalismo debole”, in Giur. comm., 2014, I, p. 669 ss.; LIBERTINI-MIRONE-SANFILIPPO, L’assemblea di società per azioni, Milano, 2016, p. 359 ss.; Mirone, in Diritto commerciale, a cura di M. Cian, III, Torino, 2017, p. 444 s.
- Per un approfondimento sulla normativa d’emergenza in relazione alle operazioni di aumento di capitale: PINTO, Aumento di capitale “covid-19” e poteri indisponibili della maggioranza, in Nuove leggi civ., 2021, p. 13 ss.; MARCHETTI, Provvedimenti emergenziali (c.d. decreto “Semplificazioni”) ed aumento di capitale, in Riv. soc., 2020, p. 1165 ss.; SPOLIDORO, Nuove e diverse soluzioni di aumento del capitale e diritto di opzione in situazioni di emergenza, in Riv. soc., 2020, p. 406 ss.
- Sull’efficacia ex nunc della pronuncia che dichiara l’invalidità della delibera di aumento di capitale, in dottrina si evidenzia come ciò non possa tuttavia prescindere dal principio di irretroattività delle vicende organizzative ormai attuate (MEO, Gli effetti dell’invalidità delle deliberazioni assembleari, Milano, 1998, p. 344 ss. e 400 ss.; PISANI MASSAMORMILE, Invalidità delle delibere assembleari. Stabilità ed effetti, in Riv. dir. comm., 2004, I, p. 64 ss.; GENOVESE, Le fattispecie tipiche di invalidità, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Campobasso, diretto da Abbadessa-Portale, II, Torino, 2006, p. 230 ss.; BELTRAMI, La responsabilità per danni da fusione, Torino, 2008, p. 45 ss.; ID., L’invalidità delle deliberazioni assembleari ex art. 2379-ter c.c., in Società, banche e crisi d’impresa. Liber amicorum Abbadessa, diretto da M. Campobasso e altri, I, Torino, 2014, p. 698 ss.; SACCHI, Gli effetti della sentenza che accoglie l’impugnazione di delibere assembleari, in Banca borsa tit. cred., 2012, I, p. 146 ss.; GINEVRA, Nullità post-conversione di delibera di emissione di obbligazioni bancarie convertibili?, in Giur. comm., 2003, II, p. 268 ss.; ID., in Diritto commerciale, cit., p. 226 s.)
- Con riguardo alla natura anticipatoria del provvedimento sulla sospensiva, cfr. ex multis VILLATA, Impugnazioni di delibere assembleari e cosa giudicata, Milano, 2006, p. 503 ss.; COREA, La sospensione delle deliberazioni societarie nel sistema della tutela giurisdizionale, Torino, 2008, p. 216 ss. Per il rilievo che la sospensione non consente di pervenire alla rimozione, anche solo temporanea, di quanto fino a quel momento prodotto, atteso che un siffatto risultato si potrebbe, semmai, conseguire attraverso un provvedimento cautelare atipico ex art. 700 c.p.c., v. ROMANO, Art. 2378, in Le società per azioni. Codice civile e norme complementari, diretto da Abbadessa-Portale, I, Milano, 2016, p. 1102 ss. In giurisprudenza, v. Trib. Torino (ord.), 4 settembre 2013, in Banca borsa tit. cred. 2015, II, p. 604 ss., secondo cui il provvedimento cautelare può solo sospendere l’efficacia ulteriore di una delibera impugnata, cioè gli effetti che sono destinati a prodursi nel futuro: in altri termini, la sospensiva può operare soltanto ex nunc.
Ricorso per la cancellazione dell'iscrizione di un pegno su quota condizionato
Ricorso per la cancellazione dell’iscrizione di un pegno su una quota sottoposto a condizione sospensiva non verificatasi
Trib. Milano, 24 maggio 2021. Si segnala un interessante provvedimento del Giudice del Registro delle imprese concernente un’ipotesi di iscrizione formale di un diritto di pegno su una quota di s.r.l. prima del verificarsi dei presupposti sostanziali del diritto stesso.
In punto di fatto, nella specie era accaduto che i due soci di una s.r.l. e un soggetto investitore avevano concluso un accordo avente ad oggetto un finanziamento garantito. L’investitore avrebbe cioè fornito alla s.r.l. certe somme a questa necessarie; quale garanzia alla restituzione dell’obbligazione, i soci concedevano pertanto al creditore l’iscrizione del pegno sulle quote della s.r.l. a loro intestate. Avveniva poi che, prima ancora che le somme venissero corrisposte alla s.r.l. da parte dell’investitore, quest’ultimo chiedeva e otteneva l’iscrizione di due pegni gravanti su quote dei soci della s.r.l. rappresentative del 90% del capitale sociale. Successivamente, insorgevano contrasti tra le parti dell’accordo e il finanziamento non veniva del tutto effettuato, pur permanendo l’iscrizione del pegno sulle quote nel registro delle imprese.
I soci della s.r.l. adivano quindi il Giudice del Registro al fine di ottenere che le iscrizioni fossero cancellate ex art. 2191 c.c.: e ciò, perché al momento della iscrizione non sussistevano ancora i presupposti sostanziali del pegno, atteso che esso sarebbe sorto solo allorquando fosse venuta a esistenza l’obbligazione restitutoria in capo alla s.r.l. e, quindi, solo dopo il versamento dei finanziamenti promessi da parte del soggetto investitore.
La soluzione della vicenda è collegata al problema generale di chiarire se l’acquisto di diritto reale su una quota che sia subordinato a un evento esterno al contratto in sé, e dunque sottoposto a una condizione sospensiva, possa o no essere iscritto presso il Registro delle imprese e secondo quali modalità: un interrogativo, pertanto, che si pone anche con riguardo alle ipotesi di trasferimento di quota condizionato.
Nella vicenda in esame, con decisione forse suscettibile di verifica, il Giudice ha rigettato la domanda dei ricorrenti di cancellazione delle iscrizioni operate – e ritenuto quindi che queste fossero state correttamente richieste dal creditore pignoratizio ed effettuate dal conservatore – sulla base della mera constatazione che dal contratto era desumibile la volontà delle parti di costituire immediatamente il vincolo.
Al riguardo va tuttavia notato che una siffatta decisione non pare del tutto in linea con quanto stabilito nelle massime dell’osservatorio permanente conservatori dei registri delle imprese della Lombardia e del Consiglio notarile di Milano, le quali sul punto stabiliscono che gli atti di trasferimento di quote – e quindi anche quelli di costituzione di pegno su quota – sottoposti a condizione sospensiva vadano sì iscritti ma dando evidenza delle condizioni di efficacia.
In particolare viene statuito che, poiché in tali ipotesi l‘effetto traslativo non si verifica immediatamente, “il cedente rimane titolare dei diritti connessi alla titolarità della partecipazione; pertanto il cedente rimane nell’elenco dei soci e si dà pubblicità a margine del relativo nominativo dell’avvenuto deposito dell’atto di cessione sotto condizione sospensiva; il cessionario viene inserito al posto del cedente nell’elenco soci solo una volta che viene comunicato al Registro delle Imprese il verificarsi della condizione sospensiva”.
Sicché – si prevede ancora – una volta che la condizione sospensiva si sia realizzata ovvero dopo la scadenza del termine senza che questa si sia verificata, le parti dell’atto saranno tenute a dare comunicazione di tali eventi: se viene comunicato l’avveramento della condizione sospensiva, verrà allora inserito il nominativo dell’acquirente; di contro, se la notizia data riguarda il definitivo mancato verificarsi della condizione sospensiva, sarà allora cancellata la nota a margine del nominativo del cedente (v. Massime dell’osservatorio permanente conservatori dei Registri delle Imprese della Lombardia, Maggio 2013; Consiglio notarile di Milano, massima n. 15 del 6 Marzo 2013).
Quanto affermato dal Giudice sulla correttezza delle iscrizioni effettuate, indicanti unicamente l’esistenza del vincolo di pegno, porterebbe invece alla conclusione che la legittimazione formale all’esercizio dei diritti sociali relativi alla quota possa attribuirsi anche a coloro i quali non siano titolari sostanziali di tali diritti medesimi: e ciò sulla semplice base di una clausola contrattuale, contenuta nel contratto di trasferimento di quota o di pegno, la quale in concreto stabilisca l’immediatezza dell’iscrizione. Una tale situazione, peraltro, porrebbe a sua volta l’ulteriore questione di comprendere se in un caso del genere (: di legittimazione formale spettante a soggetto diverso dal pieno titolare sostanziale della quota) il presidente dell’assemblea possa allora non consentire l’esercizio del diritto di voto da parte del soggetto che gli risulti solo formalmente intestatario (problema su cui in dottrina tende a prevalere la soluzione positiva).
Tanto rilevato, si deve tuttavia evidenziare che nel caso di specie l’esigenza sostanziale sottesa alla vicenda (: l’interesse del socio a evitare un voto “incontrollato” del titolare del diritto di pegno) è stata altrimenti risolta dalla decisione del Giudice, là dove questi ha ordinato l’iscrizione di un’apposita annotazione sulle formalità di esercizio del diritto di voto. Infatti, ricalcando quanto stabilito nell’accordo, è stato disposto che fosse iscritto che il diritto di voto spettante al creditore pignoratizio avrebbe dovuto essere esercitato per il tramite di uno specifico soggetto, a ciò delegato, in concreto contrattualmente identificato dalle parti in un soggetto di fiducia dei soci della s.r.l.
Riferimenti:
- In dottrina è pacifico che all’iscrizione nel Registro delle Imprese di un trasferimento di quote, o di una costituzione di pegno, non può in nessun modo riconoscersi efficacia esaustivamente costitutiva della qualità di socio o di creditore pignoratizio: l’adempimento pubblicitario non può cioè di per sé rappresentare titolo esclusivo per l’acquisto di una partecipazione o di un diritto frazionario, i quali non possono non dipendere dal contratto stipulato inter partes (tra i tanti ZANARONE, Della società a responsabilità limitata, Milano, 2010, pag. 600; DACCÒ, La s.r.l.: la struttura finanziaria, in Diritto commerciale, a cura di Cian, Torino, 2017, pag. 676; con riguardo alle s.p.a., sul punto della irrilevanza, al riguardo, delle formalità cartolari, da ultimo, D’ARCANGELI, Legittimazione dell’azionista tra possesso di un documento e intestazione scritturale, in Governo societario ed esercizio del diritto di voto, a cura di Schiuma, Padova, 2014, pag. 142, nt. 52; in relazione alla rilevanza della formalità nel vigore del precedente sistema, nel quale era prevista anche la successiva iscrizione nel libro soci: DE STASIO, Trasferimento della partecipazione nella s.r.l. e conflitto tra acquirenti, Milano, 2008, pag. 115 s.) È pure escluso, peraltro, che all’adempimento in parola possa assegnarsi una qualche efficacia “sanante” rispetto a eventuali vizi che il titolo di acquisto dovesse presentare (ZANARONE, op. cit., pag. 601; MARASÀ, Soppressione del libro dei soci nella s.r.l. e sue conseguenze, in Riv. dir. civ., 2009, II, pag. 659 s.; BARTALENA, Art. 2470, in S.r.l. Commentario dedicato a G.B. Portale, Milano, 2011, pag. 364).
- Sulla possibilità di sollevare l'eccezione di difetto di titolarità da parte del Presidente dell’assemblea: ZANARONE, op. cit., pag. 595 ss.; FURGIUELE, Trasferimento della partecipazione e legittimazione nelle società di capitali, Milano, 2013, pag. 82.
Trib_Milano_Giudice_Registro_24052021
Legittimazione a far valere l'obbligo del socio verso la società in concordato poi fallita
Legittimazione attiva della curatela a far valere l’obbligo del socio a integrare direttamente l’attivo della società in concordato preventivo poi fallita
Trib. Milano, 1 febbraio 2021. La controversia in esame trae origine dall’obbligo assunto dal presidente del c.d.a., nonché socio di controllo, di una s.p.a. in crisi al versamento di certe somme in favore dei creditori privilegiati della stessa entro il termine di un anno circa dal passaggio in giudicato del decreto di omologazione del concordato preventivo. All’emissione dell’omologa è però seguito, pochi mesi più tardi, il fallimento della società; sicché, di fronte al mancato spontaneo adempimento da parte del socio alle obbligazioni in precedenza assunte, il curatore fallimentare ha chiesto e ottenuto nei suoi confronti un decreto ingiuntivo. Quest’ultimo è stato poi oggetto di un giudizio di opposizione, il quale si è concluso con il rigetto dell’opposizione proposta e la conferma del decreto ingiuntivo con la sentenza in commento.
Della vicenda risulta particolarmente interessante l’eccezione, rilevata d’ufficio, circa la mancanza di legittimazione attiva del curatore a far valere nei confronti del socio l’obbligo da questo assunto verso i creditori privilegiati, atteso quanto stabilito dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 11396 del 2009 in materia di garanzia prestata da terzi per l’adempimento delle obbligazioni del debitore, successivamente fallito. In particolare, secondo i giudici di legittimità "in caso di dichiarazione di fallimento conseguente alla risoluzione di un concordato preventivo accompagnato da garanzia prestata da terzi per l'adempimento delle obbligazioni assunte dal debitore, la legittimazione ad agire nei confronti del garante non compete al curatore del fallimento, bensì individualmente ai creditori che risultino tali sin dall'atto dell'apertura della procedura concordataria".
Tuttavia, contrariamente a quanto rilevato d’ufficio, nella sentenza il Tribunale ha poi riconosciuto la legittimazione attiva in capo alla curatela fallimentare. E ciò in quanto bisogna operare una distinzione concettuale tra la garanzia prestata dal terzo in favore dei creditori della società ammessa al concordato preventivo e l’obbligo di integrazione dell’attivo del concordato preventivo da parte del terzo prestato nei diretti riguardi della società in crisi.
Seguendo infatti quanto rilevato dalla curatela nelle proprie difese, nella crisi possono venire in rilievo due diverse tipologie di “finanza esterna”, cioè due distinti strumenti di intervento da parte di soggetti diversi dal debitore a sostegno dell’iniziativa concordataria.
Da un lato, si collocano le garanzie concesse da terzi come apporto destinato al successo della proposta, rafforzandone la fattibilità, con le quali vengono appunto garantite le obbligazioni del debitore inserite nel piano. Dall’altro lato, si registrano ipotesi di veri e propri apporti economici alla società da parte del terzo: tra questi, rientrano i finanziamenti dell’impresa in crisi da parte di banche o intermediari finanziari e il finanziamento da parte dei soci con apporti di capitale di credito o con apporti di capitale di rischio (ad es. conferimenti, versamenti in conto capitale), a cui si aggiungono le figure più complesse dell’istituzione di un trust o di un patrimonio destinato.
In tale quadro, accanto alle ipotesi in cui il finanziamento fa nascere obblighi di remunerazione e rimborso, esistono anche forme di apporto – di frequente realizzazione pratica – che vengono comunemente definite liberali, gratuite o a fondo perduto: il debitore cioè mette a disposizione dell’imprenditore in crisi somme di denaro (ma anche beni in natura o servizi) senza vincoli di restituzione o rimborso. Non si tratta, peraltro, solo di fenomeni della prassi: queste forme di attribuzioni sono riconosciute espressamente anche dallo stesso legislatore, come attestato dall’art. 182 quinquies, co. 5, l.fall. Comunemente, tali attribuzioni “a fondo perduto” provengono da soggetti vicini al debitore e interessati ad evitarne il fallimento come soci, amministratori e parenti o familiari di questi ultimi: tali soggetti sono disposti ad attingere ai propri patrimoni personali nella misura in cui l’esborso gratuito abbia come contropartita l’approvazione del piano.
Di tal che, allorquando – come nel caso di specie – vi siano elementi specifici alla luce del quale l’impegno assunto dal terzo debba essere qualificato come una diretta obbligazione di pagamento a favore delle casse della procedura concordataria prima e fallimentare poi, si deve escludere l’applicabilità dell’orientamento giurisprudenziale delle Sezioni Unite già richiamato. In particolare, da un punto di vista sistematico, depone in tal senso la circostanza che, al fine di inquadrare la fattispecie in esame nel novero delle garanzie, nel testo dell’accordo avrebbe dovuto essere disciplinato il diritto di regresso ex art. 1950 c.c. nei confronti del debitore garantito (e, dunque, della società in concordato). Diritto di regresso che, nel caso concreto, mancava.
Riferimenti:
- Sulla c.d. “finanza esterna”, cfr. TERENGHI, “Finanza esterna”, ordine delle cause di prelazione e flussi di cassa nel concordato con continuità, in Il fallimento, 2019, p. 381; VITIELLO, Il concetto di finanza esterna nel concordato preventivo: fattispecie problematiche, in ilfallimentarista.it, 11.05.2015, secondo cui: “L’esistenza di risorse estranee al patrimonio del debitore che intenda definire la crisi della sua impresa con la procedura concorsuale del concordato preventivo è, come noto, un elemento che qualifica positivamente il piano, consentendo che il soddisfacimento del ceto creditorio discenda, oltre che dai flussi di cassa derivanti dalla liquidazione del patrimonio del debitore e/o dalla prosecuzione dell’impresa, anche dalla cd. finanza esterna”. Per una rassegna dei diversi strumenti di intervento esterno: BASSI, La «finanza esterna» nel concordato preventivo tra finanziamento del debitore e finanziamento della iniziativa, in Giur. Comm., 2019, pag. 181.
- Sul tema della garanzia del terzo in favore dei creditori della società, v. NARDECCHIA, Il terzo nel concordato, in Il Fallimento, 2017, pag. 1071. Per un commento a Cass. civ., sez. un., n. 11396 del 2009: SPIOTTA, Legittimazione ad escutere le garanzie prestate da terzi per un concordato preventivo risolto e sfociato in fallimento, in Giur. comm., 2010, pag. 468.
Art. 2409 c.c. nelle s.r.l. in liquidazione
L’applicabilità del rimedio ex art. 2409 c.c. nelle s.r.l. in liquidazione
La vicenda sulla quale si è espresso il Tribunale di Brescia con la decisione allegata costituisce uno dei primi casi pubblicati in tema di attivazione del rimedio ex art. 2409 c.c. da parte del socio di s.r.l. a seguito dell’introduzione (ad opera del d. lgs. 14/2019) del nuovo comma 7° dell’art. 2477 c.c. che, come noto, stabilisce che a tale tipo sociale “si applicano le disposizioni dell’articolo 2409 anche se la società è priva dell’organo di controllo”.
Nonostante nel caso in esame il collegio giudicante abbia rigettato il ricorso perché ha ritenuto mancanti i requisiti dell’attualità – in quanto le condotte censurate sono state ritenute essere risalenti nel tempo – e della gravità delle condotte dell’amministratore, esso implicitamente ammette, come ampiamente condiviso sia in dottrina sia in giurisprudenza, che il rimedio ex art. 2409 c.c. possa essere esperito nei confronti dei liquidatori e nell’ambito della fase di liquidazione della società. Si è ormai da tempo chiarito, infatti, che la liquidazione rappresenta una semplice fase dell’attività di impresa esercitata dalla società, nell’ambito della quale i liquidatori, pure essendo chiamati al compito di conservare il patrimonio sociale in vista della sua trasformazione in denaro, sono investiti di tutti i poteri e responsabilità normalmente attribuiti agli amministratori (v. GIANNELLI, Art 2409, in Le società per azioni, a cura di Abbadessa e Portale, I, 2016, p. 1750). Non può seriamente dubitarsi, infatti, che anche la fase della liquidazione debba essere condotta con diligenza e correttezza al fine di soddisfare l’interesse della società all’ottenimento di un adeguato valore di realizzo del proprio patrimonio.
D’altro canto, l’opinione contraria - oltre ad essere nettamente minoritaria -si fonda su un’argomentazione che, ad oggi, non può più considerarsi attuale. Nello specifico, infatti, l’esperibilità del rimedio di cui all’art. 2409 c.c. nei confronti dei liquidatori è stato negato facendo leva sull’esistenza, in tale fase, del diverso rimedio della revoca giudiziale per giusta causa ex art. 2487, ultimo comma, c.c. (già art. 2450 comma 4 c.c.) e considerando questo come sostituivo della denuncia ex art. 2409 c.c. Senonché, l’alternatività dei due rimedi è oggi sconfessata dallo stesso legislatore, posto che gli amministratori di s.r.l., per espressa previsione normativa, in caso di “gravi irregolarità nella gestione” sono senz’altro sottoposti sia al rimedio della revoca giudiziale ex art. 2476, co. 3, c.c. c., sia al controllo giudiziale ex art. 2409 c.c.: e non si vede ragione per negare lo stesso trattamento ai liquidatori.
Riferimenti:
- Seppure la possibilità di invocare il rimedio ex art. 2409 c.c. nella fase di liquidazione non sia espressamente previsto dalla legge, ciò è pacifico e costantemente confermato nella giurisprudenza di merito (in questo senso v. da ultimo Trib. Trento, 29/09/2016, in ilsocietario.it, secondo il quale “Lo stato di liquidazione della società […] non è di per sé ostativa all’esercizio dell’azione prevista dall’art. 2409 ed all’adozione dei provvedimenti da essa contemplati”; nello stesso senso, ex multis, App. Salerno, 8/11/2012, in Gir. It., 2013, p. 1109; Trib. Nocera Inferiore, 01/08/2012, in Foro It., 2012, p. 2854; Trib. Novara, 21/05/2012, in ilcaso.it; Trib. Lecco, 11/11/2003, in Giur. milanese, 2004, p. 39; e prima della riforma Trib. Trani, 30/10/2001, in Società, 2002, p. 354; Trib. Como, 19/06/2001, in Giur. di Merito, 2002, p. 998; Trib. Genova, 10/01/1996, in Società, 1996, p. 689; Trib. Milano, 09/04/1990, in Società, 1990, p. 1375; v. pure Cass. 5001/2000, che addirittura afferma che “l'intervenuta cancellazione della società dal registro delle imprese non preclude l'ammissibilità del sindacato dell'autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 2409 c.c. sull'effettiva sussistenza dei presupposti della cancellazione”), nonché dalla dottrina (ex multis, GIANNELLI, cit., p. 1741; VANONI, Denunzia al Tribunale. Art. 2409, in Commentario a cura Busnelli, 2017, pp. 72-77; BERTOLOTTI, Il collegio sindacale e la revisione legale dei conti, in Le nuove s.p.a., diretto da Cagnasso-Panzani, Bologna, 2014, p. 949). Per l’orientamento largamente minoritario, v. Trib. Pisa, 23/05/2001, in Società, 2001, 1223 (con nota di TASSI), secondo cui “E’ inammissibile il ricorso al tribunale promosso ai sensi dell’art. 2409 c.c. nei confronti dei liquidatori di una società di capitali, in quanto tale procedimento è incompatibile con il fine di rimuovere le irregolarità imputate ai liquidatori e/o, se del caso, i liquidatori medesimi, contro i quali l’ordinamento appresta il diverso strumento di tutela disciplinato dall’art. 2450 comma 4 c.c.”.
Opzione put e patto leonino
Opzione put in favore dell’acquirente di partecipazione sociale e divieto di patto leonino
App. Milano, 13 febbraio 2020. La sentenza in commento è molto rilevante in quanto affronta la questione, al centro di un vivo dibattito in dottrina e giurisprudenza, relativo alla validità alla stregua dell’art. 2265 delle opzioni put concesse nella prassi finanziaria quale garanzia, per l’investitore che acquisti una partecipazione sociale spesso risolvendo una situazione di bisogno dell’ente partecipato, della fruttuosità dell’investimento operato o quanto meno del rientro dei capitali investiti.
La pronuncia testimonia come la questione non possa considerarsi risolta pure dopo la recente presa di posizione della Cassazione, la quale con due pronunce rese nel 2018 aveva sostenuto la validità delle pattuizioni sopra richiamate in quanto potenzialmente rispondenti a un interesse meritevole di tutela [in particolare visto nell’interesse a operare un finanziamento di una società (bisognosa della corrispondente provvista) nella sostanza garantito dalla futura possibilità di vendita della partecipazione acquistata]. I giudici milanesi, proprio dichiarando di essere guidati dagli assunti teorici della richiamata Cassazione, ora risolvono in senso negativo la valutazione circa la meritevolezza della pattuizione oggetto di esame, così ritenendo che una tale valutazione va operata in concreto.
Così, la Corte parte (p. 11) dal presupposto che “il divieto di patto leonino… ha la funzione di tutelare il socio da comportamenti usurari di un altro socio, impedendo una totale esclusione di quest'ultimo dalla partecipazione alle perdite e di evitare la lesione del contratto associativo. Esso è volto a garantire la correlazione tra il potere di amministrare l'impresa e l'assunzione del rischio inerente alla gestione dell'impresa stessa”. Su tali basi, sulla scorta dell’osservazione del caso concreto conclude (p. 14) che “la causa societatis del rapporto partecipativo del socio/finanziatore non è rimasta invariata nei confronti dell'ente collettivo, ma è stata irrimediabilmente deviata dal sistema di clausole dell'accordo di investimento e patto parasociale, che perseguivano lo scopo di esonerarlo, in modo assoluto e costante, dalla sopportazione di ogni sorta di perdita, garantendogli sempre e comunque il rientro dell'investimento e finanche un guadagno”.
In relazione al procedimento logico che conduce alla riferita conclusione, meritano di essere evidenziati due ulteriori passaggi. Uno, in cui viene sottolineato che, poiché il problema del divieto di patto leonino è di evitare che qualcuno possa incidere sul controllo della società senza subirne alcun rischio, nel giudizio circa la liceità del singolo accordo rilevano le clausole dell’accordo parasociale (il quale normalmente accompagna la put) con cui l’acquirente titolare dell’opzione in parola si riservi il diritto di nominare membri del consiglio di amministrazione e in generale – aggiungerei - di avere voce nelle questioni di governance (quorum consiliari e assembleari rafforzati, nomine di organi di controllo…). Altro punto, è quello in cui la Corte milanese osserva che non v’è incompatibilità tra il rilevare concretamente la nullità di un dato accordo, pure se qualificabile come patto di finanziamento partecipativo, e la tipica ricorrenza di strumenti finanziari partecipativi: il problema non è quello di non ammettere in astratto che alla partecipazione sottenda un finanziamento, quanto di evitare che un tale meccanismo consenta in concreto di governare senza rischi la società.
La pronuncia pare in effetti un passo avanti nel chiarimento della materia. E ciò, soprattutto, nella misura in cui si rende evidente che l’affermare che un “finanziamento partecipativo” realizza un interesse astrattamente degno, e disegna dunque un accordo di per sé sensato, comunque non evita la circostanza che per effetto di un tale accordo una società può essere assoggettata al controllo o all’influenza di un soggetto del tutto o quasi indifferente al rischio di impresa, così di fatto potendosi anche consegnare la gestione all’azzardo. Se si crede, come ormai fa la moderna letteratura, che una tale eventualità è quella contro cui si erge l’art. 2265, il ragionamento che si basi su di una mera atomistica meritevolezza dell’accordo di put è quindi per forza di cose errato e va corretto.
Riferimenti:
- Le ultime pronunce della Cassazione sul tema sono in particolare quelle del 4 luglio 2018, nn. 17498 e 1500, sostanzialmente sovrapponibili tra loro. Si tratta di sentenze che hanno formato oggetto di numerosi commenti: tra i tanti v. DE LUCA, Il socio “leone”. Il revirement della Cassazione su opzioni di put a prezzo definito e divieto di patto leonino, in BBTC, 2019, p. 81 ss.; SCORDO, Partecipazioni sociali, clausole di opzione put e interessi di impresa, in Giur. comm., 2020, II, p. 300 ss.;
- In generale per la giurisprudenza di merito sul tema, fra le tante, v. App. Milano, 19 febbraio 2016, n. 636, in Notariato, 2016, p. 489 ss., con nota di MAZZOLETTI, Put option e patto leonino: un divieto ancora attuale?; in Società, 2016, 691, con nota di A.M. PERRINO, Autonomia, liceità e meritevolezza dei patti parasociali di finanziamento partecipativo; App. Genova, 18 maggio 2018, n. 829, in DeJure; App. Milano, 20 ottobre 2014, in Contr., 2015, p. 999; App. Milano, 17 settembre 2014, in Società, 2015, p. 555; Trib. Roma, 8 novembre 2019, in DeJure; Trib Bologna, 12 febbraio 2018, in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Milano, 30 gennaio 2018, ivi; Trib. Milano, 18 ottobre 2017, in Società, 2018; Trib. Roma, 5 luglio 2017, n. 13683, in DeJure;
- Sulla ratio del divieto di patto leonino e l’applicabilità anche ai patti parasociali, DE LUCA, Il socio “leone”, cit., p. 101; Santoni, Patti parasociali, Napoli, 1985, p. 38 ss. e 150 ss.; FARENGA, I contratti parasociali, Milano, 1987, p. 153 ss.; ABRIANI, Il divieto del patto leonino, Milano, 1994, p. 138 ss.; NIGRO, Art. 2265, in Delle società. Commentario del codice civile, diretto da Gabrielli, I, Torino, 2014, p. 233; SPOLIDORO, Clausole put e divieto di società leonina, in Riv. soc., 2018, p. 1296.
Corte di Appello 13.02.2020.pdf
Esclusione del socio moroso di s.r.l.
Mancato versamento dei conferimenti promessi in sede di aumento di capitale di s.r.l. ed esclusione del socio
Cass. 21 gennaio 2020, n. 1185. La s. Corte si pronuncia sulla questione della perimetrazione dell’ambito di applicazione della norma in tema di socio moroso di s.r.l., contenuta nell’art. 2466 c.c., nonché sui suoi specifici contenuti. In particolare, in primo luogo viene affermato di potersi estendere la previsione in parola pure all’inadempimento dell’obbligo di conferimento derivante dalla sottoscrizione di capitale intervenuta in sede di aumento di capitale, oltre che di costituzione. In secondo luogo, si precisa che, a giudizio della Corte, spirata la diffida inviata dagli amministratori, l’eventuale inadempimento del socio può comportare unicamente una sua esclusione parziale, in relazione cioè alla quella porzione di quota che era stata sottoscritta in sede di modifica del capitale sociale: senza che venga meno, invece, la partecipazione sociale del medesimo socio per la parte già sottoscritta e liberata in sede originaria.
Sul primo punto, si pongono per la verità pochi dubbi. E’ difficile infatti contraddire l’assunto per cui l’art. 2466 c.c. è disposizione che, come riporta la Corte, “mira a preservare l’effettività del capitale sociale”. Così, poiché non è tollerabile che la società denunci un capitale sociale nominale cui non corrisponderà (per effetto dell’inadempimento del socio) un effettivo apporto di risorse finanziarie (un “capitale reale”), occorre prevedere un rimedio per l’eventualità che una tale versamento del socio non sia mai operato: e tale rimedio consiste appunto nella procedura che stabilisce la vendita della quota e, in caso di mancanza di acquirenti, la riduzione del capitale sociale e l’esclusione del socio.
Il secondo problema è certo più complicato. Quando l’aumento di capitale viene deliberato, il quotista ha già adempiuto – perché lo prevede la legge – il precedente impegno ai conferimenti e pertanto ha già consolidato la propria posizione di “socio”. Ove si decida un aumento di capitale ed egli sia inadempiente al nuovo obbligo di conferimento eventualmente assunto, l’applicazione dell’art. 2466 a tale vicenda può giustificare una completa esclusione di tale soggetto dalla società o solo un annullamento della nuova porzione di quota, acquisita con la riferita modifica statutaria? Su questo profilo, la Cassazione decide nel secondo senso, motivando, sia sulla base di una ordinaria “divisibilità” della quota (desunta dall’art. 2373, comma 4, nonché della “pacifica alienabilità parziale della quota”), sia sulla coerenza di tale soluzione “ai principi di buona fede e correttezza i quali necessariamente informano anche i rapporti societari”.
Che la soluzione ora adottata dai supremi Giudici sia quella corretta in materia di s.p.a. non si discute. Per la s.r.l., invece, la posizione non è tuttavia scontata e si scontra, infatti, oltre che con una giurisprudenza di merito, con una significativa parte della dottrina. Alcuni indici in effetti spingono in altra direzione, e cioè per la rilevanza organizzativa nella s.r.l. del rapporto personale tra soci e la rilevanza dell’inadempimento sul piano di tale rapporto (v., tra il resto, l’utilizzo del termine “esclusione” nel 2466, piuttosto che di quello “annullamento”). E ove si creda che la s.r.l. sia tipo che di base lega la sua spinta di governance all’istituzione di un diretto rapporto personale tra i soci (il quale non sia quindi solo, come nella s.p.a. un riflesso del rapporto reale occasionato dalla contitolarità del capitale sociale), l’idea di considerare anche l’inadempimento degli obblighi di conferimento assunti in sede di aumento di capitale fonte di una vera e propria esclusione (similmente a quanto accadrebbe nelle società personali) non pare per la verità affatto peregrina. In un tale quadro concettuale, può immaginarsi di doversi adottare una soluzione diversa a seconda della scelta statutaria adottata: in una s.r.l. con quote dichiaratamente rivolte al mercato (magari anche con l’istituzione di apposite categorie, come oggi è espressamente consentito) o comunque espressamente indicate quali divisibili, l’interpretazione in commento adottata dalla s. Corte sarebbe condivisibile; in mancanza di una tale caratterizzazione statutaria della società, dovrebbe invece prospettarsi una lettura opposta.
Riferimenti:
- Sull’art. 2466, in generale, per tutti, VALZER, La mancata esecuzione dei conferimenti, in S.R.L. Commentario dedicato a Giuseppe B. Portale, a cura di Dolmetta – Presti, Giuffrè, Milano, 2011, 227 ss.; e ZANARONE, Della società a responsabilità limitata, in Il Codice Civile Commentario, fondato da Schlesinger diretto da Busnelli, I, Giuffrè, Milano, 2010, 421
- Specificamente sull’applicabilità delle norme in tema di socio moroso anche in sede di aumento di capitale sociale, Cass., 30/09/2019, n. 24444 e Cass., 25/02/2020, n. 4956.; AVANZINI, Esclusione del socio per mancata esecuzione dei conferimenti a seguito della sottoscrizione dell’aumento di capitale, in www.ilsocietario.it; PERRINO, Le tecniche di esclusione del socio dalla società, Milano, 1997; SPOLIDORO, I conferimenti in danaro, Tr. Colombo-Portale, 449; G.M. D’AIELLO, Questioni “aperte” in tema di vendita coattiva della quota del socio moroso s.r.l., in Banca Borsa e Titoli di credito, 2012, VI, 758
- In merito alla limitazione dei rimedi alla sola quota sottoscritta in sede di aumento di capitale: in senso contrario, FERRI, Le società, in Trattato Vassalli, Torino, 1987, 435; VALZER, op. cit.; ZANARONE, op. cit; in senso favorevole, SANTINI, Società a responsabilità limitata, sub art. 2477, in Della società a responsabilità limitata: art. 2462-2483 c.c., Bologna, 2014, p. 103, nt. 08; MASI, Art. 2466, in Società di capitali Commentario, a cura di Niccolini – Stagno d’Alcontres, Napoli, 2004, 1444; MASTURZI, Art. 2466, in La riforma delle società, a cura di Santoro e Sandulli, III, Torino, 2003, 45; CACCHI PESSANI, Articolo 2466, in Commentario alla riforma delle società, diretto da Marchetti – Bianchi – Ghezzi - Notari, Egea, Milano, 2008, 209; D’AMBRA, Il mancato pagamento delle quote di s.r.l., in Società, 1994, 749 ss.
Cass 1 1 2020 1185 mora socio srl.pdf
Escussione abusiva di garanzia bancaria
Canone di locazione commerciale, lockdown ed escussione abusiva di fideiussione bancaria
Trib. Roma, 27 ottobre 2020. Si segnala questa recentissima pronuncia, che ha inibito al locatore di escutere la fideiussione a prima richiesta emessa a protezione del diritto a ricevere i canoni locati, ritenendo la suddetta escussione, intimata per lettera, “abusiva” in quanto in violazione del canone di buona fede. In particolare, nella specie la violazione sembra essere consistita, a opinione del giudice, nel “non avere mostrato alcuna disponibilità a rinegoziare le condizioni del rapporto, alla luce delle sopravvenute circostanze oggettive di indiscutibile impatto sull’equilibrio del rapporto”. In altre parole, per i giudici romani l’emergenza del lockdown imponeva al locatore in buona fede una valutazione di una (temporanea?) riduzione del canone, e (sembra) una parallela sospensione dei collegati originari termini di pagamento, cosicché la richiesta alla banca di ricevere un pagamento correlato a detti termini si configurerebbe come abuso dello ius scrictum in una situazione di sua difformità rispetto alle condizioni sostanziali.
La pronuncia si inscrive nell’orientamento, di per sé ormai ricevuto (e granitico), per cui la pretesa di pagamento di una garanzia autonoma da parte del suo beneficiario è paralizzabile dalla banca con l’exceptio doli, cosicché il medesimo rimedio può fondare la richiesta di inibitoria verso la banca, ex art. 700 c.p.c. a effettuare il pagamento. Particolarità del caso concreto è che l’abuso (per contrarietà a buona fede) nella pretesa di azionare il diritto di credito garantito sarebbe fondato su un’ulteriore lesione dell’obbligo di buona fede, che ex art. 1375 c.c. in thesi nella specie imponeva al locatore di rinegoziare il canone o quanto meno valutare la sussistenza di altri presupposti di una rinegoziazione (in base alla presupposizione? O a una interpretazione estensiva dell’art. 1581?), dato il sopravvenuto mutamento nella oggettiva possibilità di godimento del bene locato (nell’utilizzo concordato).