Misure cautelari – Requisiti

1) Tribunale di Lodi del 18 maggio 2023

Composizione negoziata – Misure cautelari – Strumentalità - Risanamento

Dall’art. 19, co. 1, C.C.I.I. si ricava che ai fini della concessione delle misure cautelari queste devono essere strumentali a tutelare le trattative nell’ambito della procedura di composizione negoziata, al fine di portare a compimento il percorso di risanamento e, quindi, non possono costituire strumenti attraverso i quali l’imprenditore ottenga risultati ulteriori e diversi rispetto alla propria ristrutturazione (1);

Attraverso le misure cautelari non è possibile imporre un facere alla controparte coinvolta nelle trattative, posto che, diversamente, l’imprenditore potrebbe ottenere tramite la negoziazione risultati non ottenibili nemmeno all’esito di un contenzioso o che comunque richiedano un contenzioso (2)

(1-2) Si segnala un interessante provvedimento del Tribunale di Lodi in materia di misure cautelari nell’ambito della composizione negoziata della crisi d’impresa.

Nel caso esaminato dal giudice lodigiano, una società presentava istanza di conferma delle misure protettive e chiedeva la concessione di diverse misure cautelari.
In particolare, in relazione a quest’ultime la stessa instava per: i) la sospensione dell’onere di pagamento della quota capitale nei confronti di determinati creditori bancari; ii) sospensione della rateazione in essere del debito fiscale; iii) l’inibitoria per gli istituti di credito di segnalare in Centrale Rischi l’intervenuta sospensione dei pagamenti nel corso delle trattive.

Il Giudice concedeva le misure cautelari di cui ai punti i) e iii). Il tribunale riteneva accoglibile la sospensione del pagamento della quota di capitale degli ammortamenti e delle rateazioni a scadere nei confronti degli istituti finanziari in quanto essa era volta a garantire alla società ricorrente adeguati margini di manovra per attivare e condurre le iniziative di risanamento aziendale. Si stabiliva, peraltro, il divieto per le banche di effettuare le segnalazioni alla Centrale Rischi al fine di non vanificare l’effetto della misura cautelare di sospensione dei pagamenti a scadere. Tale inibitoria si configura quale misura necessaria e complementare alla sospensione dei pagamenti a scadere. Di diverso avviso è il Tribunale di Verona che, con sentenza del 24 aprile 2023 – commentata sul nostro sito, ha rigettato sia l’istanza di concessione della sospensione dei pagamenti sia la richiesta di inibitoria di segnalazioni alla Centrale Rischi della Banca d’Italia. Il giudice veronese, in particolare, ha ritenuto l’istanza di sospensione esorbitante rispetto alla speciale protezione accordata dal legislatore, oltre che incisiva sulla sfera di autonomia delle parti, sulla quale è precluso l’intervento del giudice. Sulla concessione dell’inibitoria, invece, il rigetto è stato motivato con l’assenza di strumentalità rispetto al buon esito delle trattative, atteso che secondo il tribunale l’istanza era finalizzata ad evitare un effetto che già si produce a seguito dell’iscrizione nel registro delle imprese della richiesta di conferma delle misure protettive.

Per quanto attiene invece la richiesta di sospensione della rateazione in essere del debito fiscale, questa veniva rigettata perché appariva funzionale alla continuità e alla prosecuzione dell’attività imprenditoriale, finalità questa non contemplata dall’art. 19 CCII.

TRIB_LODI

Misure protettive – Coinvolgimento dell'esperto

1. Tribunale di Milano del 14 maggio 2022

Composizione negoziata – Misure protettive –Ruolo dell’esperto – Mediatore interessi contrapposti – Obbligo di riservatezza

La figura dell’esperto è stata introdotta dal legislatore quale professionista negoziatore, terzo e imparziale, deputato ad assistere l’imprenditore nello svolgimento delle trattative, facilitando le stesse e stimolando gli accordi. In ragione della sua competenza, egli è chiamato a coadiuvare le parti nella comunicazione, nella comprensione dei problemi e nella composizione e mediazione degli interessi contrapposti delle stesse. La sua partecipazione alla procedura – coperta dalla garanzia dell’assoluta riservatezza riguardo le informazioni acquisite – è concepita come indispensabile: l’imprenditore è tenuto ad affidarglisi in toto, fornendogli tutte le informazioni necessarie in ordine alla condizione finanziaria della propria impresa e non omettendo nulla.

Composizione negoziata – Misure protettive – Ruolo dell’esperto – Garante della procedura

L’esperto rappresenta il garante della sicurezza delle trattative e dell’assenza di atteggiamenti dilatori o poco trasparenti: ciò implica che il suo coinvolgimento deve essere costante e protrarsi per tutta la durata della procedura, non potendosi arrestare al solo primo incontro finalizzato ad ottenere parere positivo all’accesso alla procedura e la non archiviazione immediata della composizione.

 

2. Tribunale di Verona del 19 giugno 2023

Composizione negoziata – Misure protettive – Mancato coinvolgimento dell’esperto – Tutela riservatezza debitore – Sacrificio creditori

Nella fase iniziale della procedura di composizione negoziata, la documentazione inerente la proposta del piano di risanamento può non essere comunicato ai creditori o all’esperto, né depositata in sede di conferma delle misure protettive per ragioni di riservatezza, ragioni che meritano di essere salvaguardate se e nella misura in cui in tale documentazione vengano in considerazione notizie relative al ciclo produttivo e/o alle attività commerciali la cui diffusione può essere pregiudizievole per la società  o dei terzi contraenti (nella specie si trattavano di due contratti che la società istante aveva concluso con due diversi soggetti).

La mancata comunicazione all’esperto dei contratti che stanno alla base della proposta del piano di risanamento non è un elemento ostativo alla conferma delle misure protettive, in considerazione della fase, allo stato iniziale, della composizione negoziata e del carattere soltanto temporaneo del sacrificio che ne deriva ai creditori ex art. 18, commi 1 e 4, CCII.

 

Composizione negoziata – Misure protettive – Fase iniziale della procedura - Mancato coinvolgimento dell’esperto – Proposta

Non costituisce un ostacolo alla conferma delle misure protettive la circostanza che nella fase iniziale della procedura le linee guida della “manovra finanziaria” siano solo abbozzate, senza che siano stati ancora indicati, in particolare, percentuale e tempi di soddisfacimento riservati ai creditori.

 

(1-2) Si segnalano due provvedimenti interessanti, che giungono a due soluzioni opposte, in tema del coinvolgimento dell’espero nel procedimento di composizione negoziata della crisi.

Nel caso esaminato dal Tribunale di Milano, una società presentava un’istanza di proroga delle misure protettive di 60 giorni. Sulla richiesta l’esperto esprimeva parere negativo segnalando diverse criticità.  In particolare, quest’ultimo riferiva che, da un alto, la società aveva posto in essere un’attività di contatto stragiudiziale con i creditori, con trasmissione di documenti, in sua assenza e fuori dall’ambito della composizione negoziata e, dall’altro lato, segnalava la difficoltà nel reperire le necessarie informazioni e i documenti societari di supporto per lo svolgimento del suo operato a causa di una certa ritrosia manifestata dall’imprenditore a fornire quanto richiesto. Peraltro, nel merito l’esperto escludeva la sussistenza di una ragionevole probabilità di perseguire il risanamento.

Il Giudice rigettava la richiesta di proroga, sulla base del parere negativo da parte dell’esperto, e precisava il ruolo che questo svolge nel procedimento della composizione negoziata della crisi, affermando l’indispensabilità della sua partecipazione in ogni fase della procedura in quanto garante e mediatore dei diversi interessi contrapposti. Aggiungeva, altresì, che per permettere all’esperto di espletare tale compito l’imprenditore deve fornirgli tutte le informazioni necessarie, senza alcuna omissione, considerando che tutte le informazioni acquisite sono coperte da riservatezza.

Considerato ciò, la società ricorrente non coinvolgendo l’esperto ha contravvenuto, secondo il Tribunale, al suo dovere di buona fede, chiarezza, correttezza e collaborazione verso l’esperto e il ceto creditorio, ponendo in essere condotte contrarie al corretto perseguimento di una composizione negoziata assistita e consapevole.

Nel secondo provvedimento una società ricorreva dinnanzi al Tribunale di Verona per la conferma delle misure protettive. L’attuazione della proposta del piano di risanamento si basava su due accordi: in primis un accordo commerciale in forza del quale la società aveva ottenuto una rilevante commessa di produzione per un contratto da dieci milioni di euro per la produzione di una linea di un marchio commerciale molto noto. Il secondo contratto veniva stipulato con un fondo, poco prima dell’avvio del procedimento di composizione, attraverso il quale il fondo si impegnava a patrimonializzare la società mediante la sottoscrizione di un aumento di capitale ad essa riservato.

Tali operazioni, poste alla base del risanamento, non venivano comunicate né all’esperto né ai creditori e nessuna documentazione in merito veniva depositata in sede di ricorso per la conferma delle misure protettive. Il Giudice, nonostante ciò, confermava le misure protettive, ritenendo che il mancato coinvolgimento da parte dell’esperto, non poteva rappresentare un elemento ostativo alla summenzionata conferma. Ciò, veniva ritenuto in un’ottica di un contemperamento dei diversi interessi in gioco: in particolare, affermandosi legittimo tutelare l’interesse del debitore a salvaguardare la riservatezza della documentazione contenente informazioni inerenti il ciclo produttivo e/o alle attività commerciali, che richiede nella fase iniziale un sacrificio ancorché temporaneo da parte dei creditori.

Il Tribunale di Verona giunge a tale conclusione nonostante precisi che, da un lato, l’esperto è tenuto ad un obbligo di riservatezza e, dall’altro che, il contenuto della proposta di risanamento contiene informazioni necessarie ed appropriate affinché i creditori possano consapevolmente decidere se aderire o meno alla proposta che verrà formulata dalla società debitrice, e che dunque ciò presuppone che la manovra non sia soltanto abbozzata, ma definita nei suoi termini esatti.

 

TRIB_MILANO

TRIB_VERONA

 

 

 

Recentissime di giurisprudenza in materia di composizione negoziata della crisi d’impresa

Tribunale di Perugia del 21 marzo 2024 (proroga della composizione negoziata della crisi)

Là dove, per effetto della proroga delle misure protettive, sia prorogata pure la durata della procedura di composizione negoziata non per la durata complessiva delle misure medesime ma per un successivo periodo di 180 giorni, resta comunque ferma la cessazione per l’imprenditore dell’ “ombrello protettivo” offerto dallo “stay”: onde le trattative – ove dovessero proseguire – non potrebbero comunque avvalersi della copertura derivante dal blocco delle iniziative esecutive o cautelari da parte dei creditori.

Nella composizione negoziata la determinazione circa il momento entro il quale depositare la relazione finale compete sempre all’Esperto, in quanto l’Autorità giudiziaria è estranea al percorso della negoziazione se non per la parentesi della conferma delle misure protettive e, anche in tale sede, non potrebbe comunque ordinare ovvero consentire la prosecuzione della negoziazione.

Dopo l’emissione di un provvedimento accertativo della cessazione degli effetti delle misure protettive è rimessa all’Esperto la valutazione della prosecuzione delle trattative – in assenza dello stay – per la composizione negoziata della crisi fino al termine massimo di 360 giorni.

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Tribunale di Urbino del 9 marzo 2024 (richiesta di conferma delle misure protettive ex art. 18 C.C.I.I.)

Il ricorso per la conferma delle misure protettive va notificato soltanto ai creditori che all’atto del deposito della richiesta di conferma delle misure abbiano già dato impulso ad azioni esecutive sul patrimonio della società (anche se il provvedimento è destinato a essere efficace nei confronti della generalità dei creditori). Le esigenze conoscitive degli altri creditori sono soddisfatte dall’onere del debitore di richiedere la pubblicazione nel Registro delle Imprese del ricorso e del numero di ruolo del procedimento di convalida. 

La delibazione giudiziale da operare in sede di conferma delle misure protettive deve incentrarsi sulla verifica della ricorrenza di una situazione di squilibrio patrimoniale e/o economico-finanziario che possa essere superata sulla scorta di un relativo piano e all’esito di interlocuzioni assistite dall’Esperto con il ceto creditorio.

Devono ritenersi riscontrabili i presupposti di legge per la conferma delle misure protettive, allorché l’accertata situazione di precarietà della società ricorrente appaia poter trovare ragionevoli possibilità di superamento col percorso delineato dalla medesima, e ciò nonostante l’Esperto abbia sollevato perplessità circa l’attitudine delle strategie di intervento a superare la crisi. 

Che la conferma delle misure protettive sia funzionale al percorso di risanamento si può trarre dalla circostanza che le strategie programmate presuppongano la fisiologica operatività dell’impresa.

 

TRIB_URBINO DEL 9.03.24

 

Misure protettive e cautelari nell’ambito della composizione negoziata della crisi di impresa

Misure protettive e cautelari nell’ambito della composizione negoziata della crisi di impresa

Trib. Varese, 24 aprile 2023. L’ordinanza allegata viene segnalata perché offre un’interessante disamina dei presupposti oggettivi e soggettivi necessari per ottenere la conferma delle misure protettive tipiche e, soprattutto, un approfondimento sui requisiti per la concessione delle misure cautelari atipiche nell’ambito di una procedura di composizione negoziata della crisi di impresa ai sensi degli artt. 12 e ss. CCII.

Nel caso esaminato dal Tribunale di Varese, tramite ricorso ex art. 19 CCII una società aveva chiesto di confermare le misure protettive tipiche di cui all’art. 18 CCII nei confronti di tutti i propri creditori, nonché di concedere una serie di misure cautelari consistenti principalmente nella moratoria dell’addebito degli interessi passivi dei rapporti contrattuali di conto anticipo/sconto fatture, nonché dell’addebito delle rate dei canoni di locazione finanziaria dovuti in forza di contratti sottoscritti con istituti finanziari e società di leasing (la società richiedeva anche l’inibitoria all’escussione delle garanzie correlate ai contratti di finanziamenti e di leasing e l’inibitoria di qualsiasi segnalazione alla Centrale Rischi della Banca d’Italia).

La premessa da cui muove il Giudice è che, ai fini della conferma delle misure protettive, è necessario che la società debitrice dimostri l’esistenza di una concreta prospettiva di risanamento - intesa come ragionevole probabilità che l’impresa superi gli squilibri finanziari, patrimoniali ed economici in corso - e, al contempo, la sussistenza del rischio che la mancata concessione delle misure possa pregiudicare l’andamento e il buon esito delle trattative.
Nella fattispecie delibata, il Tribunale ha ritenuto che i citati presupposti non sussistessero, mancando in primis un’adeguata dimostrazione di concrete prospettive di risanamento: da un lato, l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a fronteggiare le obbligazioni e il rapporto costi/ricavi in disequilibrio negativo facevano apparire come irreversibile lo stato di crisi; dall’altro lato, il piano di risanamento formulato dalla società non si dimostrava concreto e ragionevole, contenendo solamente una rappresentazione generica degli interventi ipotizzati per il superamento della crisi ed essendo, di fatto, basato esclusivamente sulla ricerca di un terzo investitore, senza fornire prova di aver ottenuto serie manifestazioni di interesse, né di aver avviato le trattative con i creditori. In un contesto in cui il Giudice è chiamato a operare un bilanciamento tra l’interesse del debitore a conseguire il risanamento e le aspettative dei creditori, nell’ipotesi in cui il piano formulato dalla società ricorrente non appaia offrire serie prospettive di risanamento né assicurare un miglior soddisfacimento delle ragioni dei creditori, non è possibile comprimere i diritti di credito.
Inoltre, dovendo l’indagine giudiziale estendersi alla verifica della strumentalità delle misure, cioè della loro utilità ad assicurare il buon andamento delle trattative, la società ricorrente non può limitarsi a dimostrare di aver fornito, nelle more, ai creditori una mera rappresentazione della propria situazione, dovendo gli stessi essere messi nelle condizioni di interloquire rispetto al piano di risanamento e di valutare proposte specifiche.

Interessante è poi la motivazione spesa per rigettare la richiesta di concessione delle misure cautelari, per la cui delibazione il Giudice ritiene sia richiesta una verifica rafforzata in relazione alla loro effettiva strumentalità rispetto agli scopi della procedura, data la loro natura di misure atipiche e innominate.
I provvedimenti cautelari – afferma il Tribunale di Varese – possono avere effetti inibitori sui diritti di creditori e terzi, ma non consentono di ottenere coattivamente l’esecuzione di nuove prestazioni, il conseguimento di utilità altrimenti non dovute o l’instaurazione di rapporti giuridici ex novo (in tal senso, ad esempio, si esclude la possibilità di ottenere nuovi affidamenti bancari o la reviviscenza di contratti già risolti).
Sulla base di tale premessa, è stata giudicata non meritevole di accoglimento la richiesta cautelare della società ricorrente finalizzata a ottenere la sospensione unilaterale delle proprie prestazioni contrattuali di pagamento, ferma l’efficacia dei contratti cui le stesse erano riconnesse: a fronte di una misura simile, infatti, i creditori avrebbero dovuto continuare ad eseguire le proprie prestazioni (peraltro già completate con la concessione del finanziamento o la consegna del bene in leasing) senza poter ricevere la controprestazione, nell’ambito di un meccanismo finalizzato ad anticipare coattivamente la futura rinegoziazione dei contratti di finanziamento e di locazione finanziaria senza il consenso dell’altro contraente e senza la previsione di un indennizzo o altre forme di compensazione.
In buona sostanza, il Giudice varesino ha ritenuto non condivisibile la tesi della ricorrente secondo cui potrebbero validamente sussumersi nel novero delle misure cautelari tutti i provvedimenti che consentano al debitore di conseguire gli obiettivi prefissati con l’avvio della procedura di composizione negoziata; e per motivare la propria posizione e il rigetto della domanda, ha dichiarato apertamente di non condividere l’orientamento espresso dal Tribunale di Milano e invocato dalla debitrice a proprio sostegno, secondo il quale sarebbe da ritenersi ammissibile una misura cautelare volta ad ottenere la sospensione dei contratti di finanziamento per un dato arco temporale, stante la necessità di coltivare le trattative senza il pericolo di vulnera al principio della par condicio creditorum e di favorire la ripresa dell’attività produttiva.
Nella pronuncia che si segnala, il Giudice ha ritenuto di sposare la tesi di un altro filone giurisprudenziale secondo cui la misura cautelare di cui all’art. 18, comma 5, CCII, “non può andare oltre l’ambito della previsione stessa, così come limitata al mancato pagamento dei crediti anteriori, là dove il legislatore, nel dare in tal modo definizione alla fattispecie, ha contestualmente omesso di assegnare al giudice il potere di estendere gli effetti protettivi anche in relazione al caso del mancato pagamento dei debiti in scadenza nel corso delle trattative” e non può comportare “una significativa alterazione del sinallagma contrattuale, implica[ndo] un intervento nell'ambito della sfera di autonomia delle parti che deve ritenersi precluso al giudice (si ricordi che, nell'ambito del concordato preventivo, si ritiene che oggetto di sospensione possa essere solamente l'intero rapporto contrattuale, e non anche la singola obbligazione corrispettiva), occorrendo al contempo osservare che la debitrice, rispetto all'eventuale inadempimento, è già protetta dal divieto di azioni esecutive”.
In aggiunta, nel provvedimento in esame si afferma che non è consentito al Tribunale, allo scopo di consentire lo svolgimento delle trattative, “sostituirsi” alla volontà delle parti e anticipare coattivamente effetti (nella specie, la rinegoziazione dei rapporti contrattuali) che restano rimessi alla libera contrattazione delle parti. Tale conclusione viene ricavata dalla circostanza per cui, mentre una disposizione di carattere eccezionale (art. 10, comma 2) del d.l. n. 118/2021 e legata all'emergenza COVID consentiva al Tribunale di esercitare un potere di riequilibrio contrattuale, il Codice della Crisi si limita a prevedere un mero potere di sollecitazione da parte dell’esperto (art. 17, comma 5); ciò che consente di affermare che, al di fuori dei casi espressamente previsti dal legislatore, l’autonomia contrattuale delle parti non possa essere conformata ab externo.

Riferimenti:
- sul tema generale delle misure protettive e cautelari: DIDONE, Le misure protettive/cautelari, in Fallimento, 2022, 10, 1251; MONTANARI, Il procedimento relativo alle misure protettive e cautelari nel sistema della composizione negoziata della crisi d’impresa: brevi notazioni, in www.ilcaso.it, 24 dicembre 2021, 3; BACCAGLINI - DE SANTIS, Misure protettive e provvedimenti cautelari, in Diritto della crisi, speciale riforma, 2021, 59; TEDOLDI, Le misure protettive (e cautelari) nella composizione negoziata della crisi, in (diretto da) M. Irrera - A. Cerrato, La crisi d’impresa e le nuove misure di risanamento, Torino, 2022, 360; LAMANNA, Composizione negoziata e nuove misure per la crisi di impresa, Milano, 2022, 25; PLATANIA, Composizione negoziata: misure protettive e cautelari e sospensione degli obblighi ex artt. 2446 e 2447 c.c., in www.ilfallimentarista.it, 7 ottobre 2021, 5; LEUZZI, Una rapida lettura dello schema del D.L. recante misure urgenti in materia di crisi d’impresa e di risanamento aziendale, in www.dirittodellacrisi.it, 5 agosto 2021, 5; BACCAGLINI, Il procedimento di conferma, revoca o modifica delle misure protettive e di concessione delle misure cautelari, nella composizione negoziata della crisi, in Riv. dir. proc., 2022, 635 ss.;
- sui presupposti per la conferma delle misure protettive in giurisprudenza: Trib. Padova (ord.), 02/03/2023, in Quotidiano Giuridico, 2023; Trib. Lecco, 02/01/2023, in Quotidiano Giuridico, 2023; Trib. Roma (decr.), 10/10/2022, in Quotidiano Giuridico, 2022; Trib. Savona (ord.), 27/03/2023, in www.onelegale.it; Trib. Palermo (ord.), 02/03/2023, in www.onelegale.it; Trib. Ivrea, 17/02/2023, in www.onelegale.it;
- i provvedimenti non condivisi nella pronuncia segnalata: Trib. Milano (ord.), 17/01/2022, in https://www.dirittodellacrisi.it/articolo/trib-milano-17-gennaio-2021-est-pipicelli; Tribunale Milano (est. Pascale) (ord.), 22/02/2023;
- provvedimento condiviso nella pronuncia segnalata: Trib. Trento (ord.) 23/09/2022.

TRIB._VARESE APRILE 2023


Diritto di controllo del socio-consigliere di s.r.l.

Diritto di controllo del socio-consigliere di s.r.l.

Trib. Venezia, 3 novembre 2022. La pronuncia si segnala perché rappresenta uno dei rari interventi editi della giurisprudenza (ma v. pure, in anni recenti, Cass. n. 2038/2018, in Giur. it., 2018, p. 1434 ss.) in materia di diritto di controllo del socio di s.r.l. che sia anche amministratore. Nel caso di specie, un socio al 50% di una s.r.l., anche amministratore delegato, proponeva ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c. al fine di poter accedere alla documentazione sociale, che lamentava essergli stata negata da parte dell’altro socio, a sua volta pure amministratore delegato. Il Giudice veneziano ha accolto parzialmente la domanda, ordinando alla società resistente l’esibizione di alcuni tra i documenti richiesti da parte ricorrente (i.e., l’elenco dei nominativi e i contatti dei giornalisti con i quali la società intrattiene rapporti e la relativa documentazione contrattuale, i contratti con alcuni fornitori e tutta la documentazione riguardante i rapporti con un Comune).

Sul tema, per meglio inquadrare la decisione in esame, va tenuto presente il principio di diritto (espressamente citato dal Tribunale) che era stato in precedenza affermato dalla citata pronuncia di Cassazione, secondo la quale: “compete anche al socio-amministratore di s.r.l. il diritto, previsto dall’art. 2476, secondo comma, cod. civ., di ricevere notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare i libri ed i documenti relativi alla gestione societaria compiuta dagli amministratori, cui egli non abbia in tutto o in parte partecipato”. In particolare, va notato che con tale arresto la s. Corte ha fondato il diritto di controllo del socio-amministratore di s.r.l. direttamente nell’art. 2476, comma 2°, c.c., benché la lettera della norma si riferisca espressamente ai soli “i soci che non partecipano all’amministrazione”.

Una simile posizione non è però pacificamente condivisa dalla dottrina. In proposito, è stato da alcuni evidenziato che la funzione amministrativa impone senz’altro ai soci consiglieri il potere-dovere di vigilare sulla gestione della società (e, quindi, di accedere alla documentazione sociale e di ottenere informazioni dagli amministratori al fine di poter adempiere a tale compito): ma ciò costituisce appunto un dovere e non un diritto degli stessi. E va ulteriormente rilevato che, seguendo una tale indicazione, la conseguenza dovrebbe allora essere che il diritto-dovere di richiedere informazioni e di consultare i documenti sociali riconosciuto in capo al socio-consigliere trovi fondamento e disciplina nelle norme previste per l’esercizio della funzione gestoria, e dunque nell’art. 2381 c.c., applicabile anche alle s.r.l. in ragione del richiamo espresso dall’art. 2475, ult. comma, c.c. Quale ulteriore corollario di un simile percorso pare di doversi riconoscere al potere-dovere di controllo dei soci amministratori la stessa estensione, anche quanto a modalità di esercizio, di quello che compete ai consiglieri dell’organo amministrativo di società per azioni. Ciò, col problema dei limiti entro i quali possa applicarsi alla s.r.l. il disposto dell’art. 2381, comma 6°, c.c.: ed è chiaro che, ove la risposta sia positiva, il singolo amministratore potrà accedere alle informazioni societarie solo nella sede consiliare e per via dell’istruttoria operata a cura del presidente. Altra parte della dottrina ha invece condiviso l’orientamento di legittimità, ritenendo che l’esclusione del socio-amministratore dal perimetro di applicazione del diritto in parola porterebbe ad un risultato incongruo, in quanto così facendo il socio amministratore avrebbe poteri più circoscritti del socio non amministratore (che, come noto, può anche ad es. avvalersi di un consulente). La conclusione sarebbe inoltre suffragata dalla recente modifica normativa dell’art. 2475 c.c., introdotta dal Codice della Crisi: al riguardo viene detto che la norma, là dove richiama l’art. 2381 c.c. “in quanto compatibile”, mirerebbe proprio ad escludere l’applicabilità del comma 6° alle s.r.l. per evitare il paradosso. Infine, al fine di confermare o escludere l’applicabilità della norma in tema di dialogo intra-consiliare nelle s.p.a. alle s.r.l., altri autori sembrano dare particolare risalto all’atteggiarsi concreto dell’organizzazione statutaria di questa, ossia: al modello di amministrazione adottato, alla circostanza che si sia fatto ricorso o meno all’istituto delle deleghe consiliari, all’eventuale richiamo operato nello statuto all’art. 2381 c.c. Se si accoglie questa impostazione, ciò non significa però ridurre il diritto di controllo del socio amministratore, ma solo precisare le forme e i modi con i quali i documenti e le notizie sono a volta a volta consultabili o ricevibili dal socio.

In tale quadro, va ora inserita la pronuncia allegata, la quale esprime una posizione riconducibile a quella dell’ultimo orientamento dottrinale riferito. L’ordinanza afferma infatti che il principio enunciato dalla suddetta Cassazione “debba essere interpretato prendendo le mosse dalla lettura integrale della sentenza” e, in particolare, da quei passaggi della motivazione in cui si segnala che il diritto di consultazione e di informazione del socio-amministratore sia analogo ma più intenso di quello del socio e che il relativo fondamento non possa essere rintracciato “sic et simpliciter” nell’art. 2476, comma 2, c.c.  Per il Tribunale, quindi, dalla sentenza di legittimità andrebbe desunto che l’amministratore “ha il diritto-dovere di rivolgersi agli altri amministratori per chiedere loro informazioni relative all’attività che esulino dal perimetro delle proprie deleghe o alle quali non abbia partecipato”.

Riferimenti:
- In generale, sul contenuto e i limiti del diritto di consultazione ex art. 2476 c.c., ex multis, cfr.: AMBROSINI, 2476 c.c., in Commentario Niccolini-Stagno D’Alcontres, Napoli, 2004, p. 1586 ss.; ABRIANI, I controlli, in Commentario Ibba-Marasà, Milano, 2020, p. 2036 ss.; ANGELILLIS-SANDRELLI, Art. 2476 c.c., in Commentario Marchetti, Milano, 2008, p. 665 ss.; BUTA, I diritti di controllo del socio di s.r.l., in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Campobasso, diretto da Abbadessa-Portale, 3, Torino, 2007, p. 585 ss.; PRESTI, Il diritto di controllo dei soci non amministratori, in S.r.l. Commentario dedicato a Portale, Milano, 2011, p. 650 ss.; ZANARONE, Della società a responsabilità limitata, in Il codice civile. Commentario, fondato da Schlesinger e diretto da Busnelli, Milano, 2010, p. 1105 ss., GUIDOTTI, Ancora sui limiti all’esercizio dei diritti di controllo nella s.r.l. e sul (preteso) diritto di ottenere copia dei documenti consultati, in Giur. comm., 2008, II, p. 218 ss.; RICCIARDIELLO, L’inerenza del diritto di controllo del socio non amministratore di s.r.l. al potere gestorio, ivi, p. 228 ss.
- In giurisprudenza, per l’orientamento contrario all’applicazione dell’art. 2476, comma 2°, c.c. al socio-amministratore, v. anche: Trib. Napoli, 13.08.2009, in Società, 2010, p. 1129 ss., secondo cui: “l’amministratore della società … non ha bisogno di esercitare i diritti di controllo previsti dalla norma in esame: anzi, ha, più che il diritto, il dovere di vigilare (delegato o meno che sia) sulla gestione della società e l’operato degli altri amministratori acquisendo ed esaminando – … non certo attraverso l’esercizio di un diritto del socio quale quello previsto dall’art. 2476, comma 2, c.c., specie se si considera che alla vigilanza è tenuto pur quando, come è ben possibile a norma dell’art. 2475 c.c., non sia socio della società – tutti i documenti sociali a tal fine utili o necessari”. In dottrina, v. in particolare ZANARONE; cit., p. 1113 s.
- Favorevoli all’applicazione dell’art. 2476, comma 2°, c.c. anche al socio-amministratore e alla disapplicazione dell’art. 2381, comma 6° c.c. nelle s.r.l., cfr.: MOSCO, in Commentario Ibba-Marasà, p. 1670 s.; ABRIANI - ROSSI, Nuova disciplina della crisi di impresa e modificazioni del codice civile: prime letture, in Società, 2019, p. 404; MONTALENTI, L’amministrazione delegata nelle società a responsabilità limitata, in Le società a responsabilità limitata: un modello transtipico alla prova del Codice della Crisi, a cura di Irrera, Torino, 2020, p. 632.
Trib_Venezia_03112022

Normativa emergenziale in materia di aumento di capitale e abuso di maggioranza

Normativa emergenziale in materia di aumento di capitale e abuso di maggioranza

Trib. Venezia, 13 settembre 2021. Si segnala una pronuncia interessante per l’applicazione del divieto di abuso di maggioranza in materia di normativa emergenziale sull’aumento di capitale.

Nel caso di specie, l’applicazione della normativa emergenziale ex art. 44 del d.l. 76/2020 c.d. “Decreto Semplificazioni” (conv. in l. 120/2020) – che, come noto, ha derogato fino al 30.06.2021 alle norme in materia di quorum assembleari, ritenendo sufficiente per l’approvazione dell’aumento di capitale il voto favorevole della maggioranza del capitale rappresentato in assemblea, anche qualora lo statuto preveda maggioranze più elevate – aveva condotto i soci portatori del 66% del capitale sociale di una s.r.l. a deliberare un aumento di capitale senza il rispetto della clausola statutaria, la quale imponeva una maggioranza pari all’80%.

Nel provvedimento allegato, ai fini della concessione della sospensiva ex artt. 2378 e 2479-ter c.c., il giudice ha riconosciuto l’utilizzo abusivo della normativa, ritenendo che essa sia stata strumentalmente applicata dalla maggioranza al fine di arrecare un danno al socio di minoranza. In particolare, nell’ordinanza viene riconosciuto che, in termini astratti, la normativa emergenziale sull’aumento di capitale ha portata generale ed è pertanto svincolata da presupposti specifici, sicché essa è applicabile anche in quei casi in cui – come quello di specie – l’aumento di capitale non sia preordinato a coprire una perdita. Tuttavia, nella fattispecie in esame il giudice ha ritenuto in concreto provato l’abuso sulla base del ragionamento che, benché sia astrattamente vero che la ratio della normativa emergenziale è quella di favorire l’apporto di nuovo capitale, essenziale all’impresa, da parte dei soci in un momento di grave crisi economica determinata dall’evento pandemico, nella specie è mancata in concreto la dimostrazione di tale essenzialità, atteso che: i) l’aumento di capitale (da €10.000,00 a €80.000,00) ammontava a una cifra quasi doppia rispetto all’urgenza finanziaria ravvisata dagli amministratori, quale risultante dal verbale del c.d.a. e ii) si era previsto il versamento immediato, al momento della sottoscrizione, solo del 25% del nuovo capitale, omettendo qualsiasi ulteriore disposizione riguardo alle modalità e tempistiche del versamento del residuo 75%, di cui è sembrato non emergere alcuna esigenza.

Si tratta pertanto di elementi da cui il giudice ricava potersi ritenere indirettamente provato il fine diluitivo dell’aumento di capitale; ciò, sulla base anche della circostanza aggiuntiva che i soci di maggioranza nella specie potevano considerarsi essere nella posizione di sapere che il socio di minoranza non sarebbe stato in grado di sottoscrivere l’aumento di capitale. Il fine fraudolento viene così indicato nell’essere stata l’operazione essenzialmente preordinata a ridurre la percentuale del socio di minoranza al di sotto della misura del 20%: vale a dire, sotto la soglia statutariamente necessaria al fine di consentire al socio di minoranza di opporsi alle decisioni rilevanti.

Sul generale tema dell’abuso di maggioranza, va ricordato che l’aumento di capitale rappresenta una vicenda tradizionalmente ritenuta – tanto in dottrina quanto in giurisprudenza – una potenziale occasione di integrazione di tale condotta, proprio nella misura in cui l’operazione si presta alla realizzazione di un programma diluitivo. E’ noto, poi, che l’“abuso” del diritto di voto è reputato illecito, a seconda delle ricostruzioni volta a volta seguite da quanti se ne sono occupati, a vario titolo: ora perché contrastante con il principio di buona fede e correttezza (ed è, come risaputo, la posizione su cui si è assestata dagli anni ’90 la Corte di Cassazione), ora in quanto integrativo di un eccesso di potere, ora poiché ritenuto frontalmente contrario a un generale divieto di abuso del diritto. Se sempre si segnala, peraltro, la difficoltà della prova dell’intento di danno, nel caso di specie è rilevante evidenziare che secondo i Giudici Veneziani tale prova risulta però facilitata dall’applicazione della normativa emergenziale, considerata invocabile per la finalità specifica di aiutare le imprese a reperire risorse economiche essenziali in un delicato momento storico: cosicché, là dove una tale esigenza si reputi non provata in concreto, dovrà presumersi l’intento fraudolento.

In relazione al punto della sospensione ex artt. 2378 e 2479-ter c.c. è opportuno segnalare che l’ordinanza si limita a disporla, senza porsi il problema delle sue conseguenze. Si tratta però di un tema tutt’altro che irrilevante, posto che secondo la migliore dottrina l’aumento di capitale eseguito non può invalidarsi con effetti ex tunc: sicché, il provvedimento del giudice – anche là dove si ritenga esso possa avere natura “anticipatoria” rispetto pronuncia di merito sull’impugnazione della delibera – non può impedire un effetto già prodottosi (la creazione di nuovo capitale), né di per sé rimuoverlo (altrimenti, anziché di sospensione dovrebbe parlarsi di vera e propria revoca).

Riferimenti:
- Sul generale tema dell’abuso di maggioranza, anche in relazione alle sue manifestazioni tipiche, quali le operazioni di aumento di capitale dilutive: ex multis, GAMBINO, Il principio di correttezza nell’ordinamento delle società per azioni, Milano, 1987; CASSOTTANA, L’abuso di potere a danno della minoranza assembleare, Milano, 1991; PREITE, L’abuso della regola di maggioranza nelle deliberazioni assembleari delle società per azioni, Milano, 1992; JAEGER-ANGELICI-GAMBINO-COSTI-CORSI, Commento a Cass. n. 11151/1995, in Giur. comm., 1996, p. 329 ss.; DENOZZA, Quattro variazioni sul tema: “contratto, impresa e società nel pensiero di Carlo Angelici”, in Giur. comm., 2013, I, p. 480 ss.; LIBERTINI, Ancora in tema di contratto, impresa e società. Un commento a Francesco Denozza, in difesa dello “istituzionalismo debole”, in Giur. comm., 2014, I, p. 669 ss.; LIBERTINI-MIRONE-SANFILIPPO, L’assemblea di società per azioni, Milano, 2016, p. 359 ss.; Mirone, in Diritto commerciale, a cura di M. Cian, III, Torino, 2017, p. 444 s.
- Per un approfondimento sulla normativa d’emergenza in relazione alle operazioni di aumento di capitale: PINTO, Aumento di capitale “covid-19” e poteri indisponibili della maggioranza, in Nuove leggi civ., 2021, p. 13 ss.; MARCHETTI, Provvedimenti emergenziali (c.d. decreto “Semplificazioni”) ed aumento di capitale, in Riv. soc., 2020, p. 1165 ss.; SPOLIDORO, Nuove e diverse soluzioni di aumento del capitale e diritto di opzione in situazioni di emergenza, in Riv. soc., 2020, p. 406 ss.
- Sull’efficacia ex nunc della pronuncia che dichiara l’invalidità della delibera di aumento di capitale, in dottrina si evidenzia come ciò non possa tuttavia prescindere dal principio di irretroattività delle vicende organizzative ormai attuate (MEO, Gli effetti dell’invalidità delle deliberazioni assembleari, Milano, 1998, p. 344 ss. e 400 ss.; PISANI MASSAMORMILE, Invalidità delle delibere assembleari. Stabilità ed effetti, in Riv. dir. comm., 2004, I, p. 64 ss.; GENOVESE, Le fattispecie tipiche di invalidità, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Campobasso, diretto da Abbadessa-Portale, II, Torino, 2006, p. 230 ss.; BELTRAMI, La responsabilità per danni da fusione, Torino, 2008, p. 45 ss.; ID., L’invalidità delle deliberazioni assembleari ex art. 2379-ter c.c., in Società, banche e crisi d’impresa. Liber amicorum Abbadessa, diretto da M. Campobasso e altri, I, Torino, 2014, p. 698 ss.; SACCHI, Gli effetti della sentenza che accoglie l’impugnazione di delibere assembleari, in Banca borsa tit. cred., 2012, I, p. 146 ss.; GINEVRA, Nullità post-conversione di delibera di emissione di obbligazioni bancarie convertibili?, in Giur. comm., 2003, II, p. 268 ss.; ID., in Diritto commerciale, cit., p. 226 s.)
- Con riguardo alla natura anticipatoria del provvedimento sulla sospensiva, cfr. ex multis VILLATA, Impugnazioni di delibere assembleari e cosa giudicata, Milano, 2006, p. 503 ss.; COREA, La sospensione delle deliberazioni societarie nel sistema della tutela giurisdizionale, Torino, 2008, p. 216 ss. Per il rilievo che la sospensione non consente di pervenire alla rimozione, anche solo temporanea, di quanto fino a quel momento prodotto, atteso che un siffatto risultato si potrebbe, semmai, conseguire attraverso un provvedimento cautelare atipico ex art. 700 c.p.c., v. ROMANO, Art. 2378, in Le società per azioni. Codice civile e norme complementari, diretto da Abbadessa-Portale, I, Milano, 2016, p. 1102 ss. In giurisprudenza, v. Trib. Torino (ord.), 4 settembre 2013, in Banca borsa tit. cred. 2015, II, p. 604 ss., secondo cui il provvedimento cautelare può solo sospendere l’efficacia ulteriore di una delibera impugnata, cioè gli effetti che sono destinati a prodursi nel futuro: in altri termini, la sospensiva può operare soltanto ex nunc.

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Ricorso per la cancellazione dell'iscrizione di un pegno su quota condizionato

Ricorso per la cancellazione dell’iscrizione di un pegno su una quota sottoposto a condizione sospensiva non verificatasi

Trib. Milano, 24 maggio 2021. Si segnala un interessante provvedimento del Giudice del Registro delle imprese concernente un’ipotesi di iscrizione formale di un diritto di pegno su una quota di s.r.l. prima del verificarsi dei presupposti sostanziali del diritto stesso.

In punto di fatto, nella specie era accaduto che i due soci di una s.r.l. e un soggetto investitore avevano concluso un accordo avente ad oggetto un finanziamento garantito. L’investitore avrebbe cioè fornito alla s.r.l. certe somme a questa necessarie; quale garanzia alla restituzione dell’obbligazione, i soci concedevano pertanto al creditore l’iscrizione del pegno sulle quote della s.r.l. a loro intestate. Avveniva poi che, prima ancora che le somme venissero corrisposte alla s.r.l. da parte dell’investitore, quest’ultimo chiedeva e otteneva l’iscrizione di due pegni gravanti su quote dei soci della s.r.l. rappresentative del 90% del capitale sociale. Successivamente, insorgevano contrasti tra le parti dell’accordo e il finanziamento non veniva del tutto effettuato, pur permanendo l’iscrizione del pegno sulle quote nel registro delle imprese.
I soci della s.r.l. adivano quindi il Giudice del Registro al fine di ottenere che le iscrizioni fossero cancellate ex art. 2191 c.c.: e ciò, perché al momento della iscrizione non sussistevano ancora i presupposti sostanziali del pegno, atteso che esso sarebbe sorto solo allorquando fosse venuta a esistenza l’obbligazione restitutoria in capo alla s.r.l. e, quindi, solo dopo il versamento dei finanziamenti promessi da parte del soggetto investitore.

La soluzione della vicenda è collegata al problema generale di chiarire se l’acquisto di diritto reale su una quota che sia subordinato a un evento esterno al contratto in sé, e dunque sottoposto a una condizione sospensiva, possa o no essere iscritto presso il Registro delle imprese e secondo quali modalità: un interrogativo, pertanto, che si pone anche con riguardo alle ipotesi di trasferimento di quota condizionato.

Nella vicenda in esame, con decisione forse suscettibile di verifica, il Giudice ha rigettato la domanda dei ricorrenti di cancellazione delle iscrizioni operate – e ritenuto quindi che queste fossero state correttamente richieste dal creditore pignoratizio ed effettuate dal conservatore – sulla base della mera constatazione che dal contratto era desumibile la volontà delle parti di costituire immediatamente il vincolo.

Al riguardo va tuttavia notato che una siffatta decisione non pare del tutto in linea con quanto stabilito nelle massime dell’osservatorio permanente conservatori dei registri delle imprese della Lombardia e del Consiglio notarile di Milano, le quali sul punto stabiliscono che gli atti di trasferimento di quote – e quindi anche quelli di costituzione di pegno su quota – sottoposti a condizione sospensiva vadano sì iscritti ma dando evidenza delle condizioni di efficacia.
In particolare viene statuito che, poiché in tali ipotesi l‘effetto traslativo non si verifica immediatamente, “il cedente rimane titolare dei diritti connessi alla titolarità della partecipazione; pertanto il cedente rimane nell’elenco dei soci e si dà pubblicità a margine del relativo nominativo dell’avvenuto deposito dell’atto di cessione sotto condizione sospensiva; il cessionario viene inserito al posto del cedente nell’elenco soci solo una volta che viene comunicato al Registro delle Imprese il verificarsi della condizione sospensiva”.
Sicché – si prevede ancora – una volta che la condizione sospensiva si sia realizzata ovvero dopo la scadenza del termine senza che questa si sia verificata, le parti dell’atto saranno tenute a dare comunicazione di tali eventi: se viene comunicato l’avveramento della condizione sospensiva, verrà allora inserito il nominativo dell’acquirente; di contro, se la notizia data riguarda il definitivo mancato verificarsi della condizione sospensiva, sarà allora cancellata la nota a margine del nominativo del cedente (v. Massime dell’osservatorio permanente conservatori dei Registri delle Imprese della Lombardia, Maggio 2013; Consiglio notarile di Milano, massima n. 15 del 6 Marzo 2013).
Quanto affermato dal Giudice sulla correttezza delle iscrizioni effettuate, indicanti unicamente l’esistenza del vincolo di pegno, porterebbe invece alla conclusione che la legittimazione formale all’esercizio dei diritti sociali relativi alla quota possa attribuirsi anche a coloro i quali non siano titolari sostanziali di tali diritti medesimi: e ciò sulla semplice base di una clausola contrattuale, contenuta nel contratto di trasferimento di quota o di pegno, la quale in concreto stabilisca l’immediatezza dell’iscrizione. Una tale situazione, peraltro, porrebbe a sua volta l’ulteriore questione di comprendere se in un caso del genere (: di legittimazione formale spettante a soggetto diverso dal pieno titolare sostanziale della quota) il presidente dell’assemblea possa allora non consentire l’esercizio del diritto di voto da parte del soggetto che gli risulti solo formalmente intestatario (problema su cui in dottrina tende a prevalere la soluzione positiva).

Tanto rilevato, si deve tuttavia evidenziare che nel caso di specie l’esigenza sostanziale sottesa alla vicenda (: l’interesse del socio a evitare un voto “incontrollato” del titolare del diritto di pegno) è stata altrimenti risolta dalla decisione del Giudice, là dove questi ha ordinato l’iscrizione di un’apposita annotazione sulle formalità di esercizio del diritto di voto. Infatti, ricalcando quanto stabilito nell’accordo, è stato disposto che fosse iscritto che il diritto di voto spettante al creditore pignoratizio avrebbe dovuto essere esercitato per il tramite di uno specifico soggetto, a ciò delegato, in concreto contrattualmente identificato dalle parti in un soggetto di fiducia dei soci della s.r.l.

Riferimenti:
- In dottrina è pacifico che all’iscrizione nel Registro delle Imprese di un trasferimento di quote, o di una costituzione di pegno, non può in nessun modo riconoscersi efficacia esaustivamente costitutiva della qualità di socio o di creditore pignoratizio: l’adempimento pubblicitario non può cioè di per sé rappresentare titolo esclusivo per l’acquisto di una partecipazione o di un diritto frazionario, i quali non possono non dipendere dal contratto stipulato inter partes (tra i tanti ZANARONE, Della società a responsabilità limitata, Milano, 2010, pag. 600; DACCÒ, La s.r.l.: la struttura finanziaria, in Diritto commerciale, a cura di Cian, Torino, 2017, pag. 676; con riguardo alle s.p.a., sul punto della irrilevanza, al riguardo, delle formalità cartolari, da ultimo, D’ARCANGELI, Legittimazione dell’azionista tra possesso di un documento e intestazione scritturale, in Governo societario ed esercizio del diritto di voto, a cura di Schiuma, Padova, 2014, pag. 142, nt. 52; in relazione alla rilevanza della formalità nel vigore del precedente sistema, nel quale era prevista anche la successiva iscrizione nel libro soci: DE STASIO, Trasferimento della partecipazione nella s.r.l. e conflitto tra acquirenti, Milano, 2008, pag. 115 s.) È pure escluso, peraltro, che all’adempimento in parola possa assegnarsi una qualche efficacia “sanante” rispetto a eventuali vizi che il titolo di acquisto dovesse presentare (ZANARONE, op. cit., pag. 601; MARASÀ, Soppressione del libro dei soci nella s.r.l. e sue conseguenze, in Riv. dir. civ., 2009, II, pag. 659 s.; BARTALENA, Art. 2470, in S.r.l. Commentario dedicato a G.B. Portale, Milano, 2011, pag. 364).
- Sulla possibilità di sollevare l'eccezione di difetto di titolarità da parte del Presidente dell’assemblea: ZANARONE, op. cit., pag. 595 ss.; FURGIUELE, Trasferimento della partecipazione e legittimazione nelle società di capitali, Milano, 2013, pag. 82.

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Legittimazione a far valere l'obbligo del socio verso la società in concordato poi fallita

Legittimazione attiva della curatela a far valere l’obbligo del socio a integrare direttamente l’attivo della società in concordato preventivo poi fallita

Trib. Milano, 1 febbraio 2021. La controversia in esame trae origine dall’obbligo assunto dal presidente del c.d.a., nonché socio di controllo, di una s.p.a. in crisi al versamento di certe somme in favore dei creditori privilegiati della stessa entro il termine di un anno circa dal passaggio in giudicato del decreto di omologazione del concordato preventivo. All’emissione dell’omologa è però seguito, pochi mesi più tardi, il fallimento della società; sicché, di fronte al mancato spontaneo adempimento da parte del socio alle obbligazioni in precedenza assunte, il curatore fallimentare ha chiesto e ottenuto nei suoi confronti un decreto ingiuntivo. Quest’ultimo è stato poi oggetto di un giudizio di opposizione, il quale si è concluso con il rigetto dell’opposizione proposta e la conferma del decreto ingiuntivo con la sentenza in commento.

Della vicenda risulta particolarmente interessante l’eccezione, rilevata d’ufficio, circa la mancanza di legittimazione attiva del curatore a far valere nei confronti del socio l’obbligo da questo assunto verso i creditori privilegiati, atteso quanto stabilito dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 11396 del 2009 in materia di garanzia prestata da terzi per l’adempimento delle obbligazioni del debitore, successivamente fallito. In particolare, secondo i giudici di legittimità "in caso di dichiarazione di fallimento conseguente alla risoluzione di un concordato preventivo accompagnato da garanzia prestata da terzi per l'adempimento delle obbligazioni assunte dal debitore, la legittimazione ad agire nei confronti del garante non compete al curatore del fallimento, bensì individualmente ai creditori che risultino tali sin dall'atto dell'apertura della procedura concordataria".

Tuttavia, contrariamente a quanto rilevato d’ufficio, nella sentenza il Tribunale ha poi riconosciuto la legittimazione attiva in capo alla curatela fallimentare. E ciò in quanto bisogna operare una distinzione concettuale tra la garanzia prestata dal terzo in favore dei creditori della società ammessa al concordato preventivo e l’obbligo di integrazione dell’attivo del concordato preventivo da parte del terzo prestato nei diretti riguardi della società in crisi.

Seguendo infatti quanto rilevato dalla curatela nelle proprie difese, nella crisi possono venire in rilievo due diverse tipologie di “finanza esterna”, cioè due distinti strumenti di intervento da parte di soggetti diversi dal debitore a sostegno dell’iniziativa concordataria.
Da un lato, si collocano le garanzie concesse da terzi come apporto destinato al successo della proposta, rafforzandone la fattibilità, con le quali vengono appunto garantite le obbligazioni del debitore inserite nel piano. Dall’altro lato, si registrano ipotesi di veri e propri apporti economici alla società da parte del terzo: tra questi, rientrano i finanziamenti dell’impresa in crisi da parte di banche o intermediari finanziari e il finanziamento da parte dei soci con apporti di capitale di credito o con apporti di capitale di rischio (ad es. conferimenti, versamenti in conto capitale), a cui si aggiungono le figure più complesse dell’istituzione di un trust o di un patrimonio destinato.
In tale quadro, accanto alle ipotesi in cui il finanziamento fa nascere obblighi di remunerazione e rimborso, esistono anche forme di apporto – di frequente realizzazione pratica – che vengono comunemente definite liberali, gratuite o a fondo perduto: il debitore cioè mette a disposizione dell’imprenditore in crisi somme di denaro (ma anche beni in natura o servizi) senza vincoli di restituzione o rimborso. Non si tratta, peraltro, solo di fenomeni della prassi: queste forme di attribuzioni sono riconosciute espressamente anche dallo stesso legislatore, come attestato dall’art. 182 quinquies, co. 5, l.fall. Comunemente, tali attribuzioni “a fondo perduto” provengono da soggetti vicini al debitore e interessati ad evitarne il fallimento come soci, amministratori e parenti o familiari di questi ultimi: tali soggetti sono disposti ad attingere ai propri patrimoni personali nella misura in cui l’esborso gratuito abbia come contropartita l’approvazione del piano.

Di tal che, allorquando – come nel caso di specie – vi siano elementi specifici alla luce del quale l’impegno assunto dal terzo debba essere qualificato come una diretta obbligazione di pagamento a favore delle casse della procedura concordataria prima e fallimentare poi, si deve escludere l’applicabilità dell’orientamento giurisprudenziale delle Sezioni Unite già richiamato. In particolare, da un punto di vista sistematico, depone in tal senso la circostanza che, al fine di inquadrare la fattispecie in esame nel novero delle garanzie, nel testo dell’accordo avrebbe dovuto essere disciplinato il diritto di regresso ex art. 1950 c.c. nei confronti del debitore garantito (e, dunque, della società in concordato). Diritto di regresso che, nel caso concreto, mancava.

Riferimenti:
- Sulla c.d. “finanza esterna”, cfr. TERENGHI, “Finanza esterna”, ordine delle cause di prelazione e flussi di cassa nel concordato con continuità, in Il fallimento, 2019, p. 381; VITIELLO, Il concetto di finanza esterna nel concordato preventivo: fattispecie problematiche, in ilfallimentarista.it, 11.05.2015, secondo cui: “L’esistenza di risorse estranee al patrimonio del debitore che intenda definire la crisi della sua impresa con la procedura concorsuale del concordato preventivo è, come noto, un elemento che qualifica positivamente il piano, consentendo che il soddisfacimento del ceto creditorio discenda, oltre che dai flussi di cassa derivanti dalla liquidazione del patrimonio del debitore e/o dalla prosecuzione dell’impresa, anche dalla cd. finanza esterna”. Per una rassegna dei diversi strumenti di intervento esterno: BASSI, La «finanza esterna» nel concordato preventivo tra finanziamento del debitore e finanziamento della iniziativa, in Giur. Comm., 2019, pag. 181.
- Sul tema della garanzia del terzo in favore dei creditori della società, v. NARDECCHIA, Il terzo nel concordato, in Il Fallimento, 2017, pag. 1071. Per un commento a Cass. civ., sez. un., n. 11396 del 2009: SPIOTTA, Legittimazione ad escutere le garanzie prestate da terzi per un concordato preventivo risolto e sfociato in fallimento, in Giur. comm., 2010, pag. 468.

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Art. 2409 c.c. nelle s.r.l. in liquidazione

L’applicabilità del rimedio ex art. 2409 c.c. nelle s.r.l. in liquidazione

La vicenda sulla quale si è espresso il Tribunale di Brescia con la decisione allegata costituisce uno dei primi casi pubblicati in tema di attivazione del rimedio ex art. 2409 c.c. da parte del socio di s.r.l. a seguito dell’introduzione (ad opera del d. lgs. 14/2019) del nuovo comma 7° dell’art. 2477 c.c. che, come noto, stabilisce che a tale tipo sociale “si applicano le disposizioni dell’articolo 2409 anche se la società è priva dell’organo di controllo”.

Nonostante nel caso in esame il collegio giudicante abbia rigettato il ricorso perché ha ritenuto mancanti i requisiti dell’attualità – in quanto le condotte censurate sono state ritenute essere risalenti nel tempo – e della gravità delle condotte dell’amministratore, esso implicitamente ammette, come ampiamente condiviso sia in dottrina sia in giurisprudenza, che il rimedio ex art. 2409 c.c. possa essere esperito nei confronti dei liquidatori e nell’ambito della fase di liquidazione della società. Si è ormai da tempo chiarito, infatti, che la liquidazione rappresenta una semplice fase dell’attività di impresa esercitata dalla società, nell’ambito della quale i liquidatori, pure essendo chiamati al compito di conservare il patrimonio sociale in vista della sua trasformazione in denaro, sono investiti di tutti i poteri e responsabilità normalmente attribuiti agli amministratori (v. GIANNELLI, Art 2409, in Le società per azioni, a cura di Abbadessa e Portale, I, 2016, p. 1750). Non può seriamente dubitarsi, infatti, che anche la fase della liquidazione debba essere condotta con diligenza e correttezza al fine di soddisfare l’interesse della società all’ottenimento di un adeguato valore di realizzo del proprio patrimonio.

D’altro canto, l’opinione contraria - oltre ad essere nettamente minoritaria -si fonda su un’argomentazione che, ad oggi, non può più considerarsi attuale. Nello specifico, infatti, l’esperibilità del rimedio di cui all’art. 2409 c.c. nei confronti dei liquidatori è stato negato facendo leva sull’esistenza, in tale fase, del diverso rimedio della revoca giudiziale per giusta causa ex art. 2487, ultimo comma, c.c. (già art. 2450 comma 4 c.c.) e considerando questo come sostituivo della denuncia ex art. 2409 c.c. Senonché, l’alternatività dei due rimedi è oggi sconfessata dallo stesso legislatore, posto che gli amministratori di s.r.l., per espressa previsione normativa, in caso di “gravi irregolarità nella gestione” sono senz’altro sottoposti sia al rimedio della revoca giudiziale ex art. 2476, co. 3, c.c. c., sia al controllo giudiziale ex art. 2409 c.c.: e non si vede ragione per negare lo stesso trattamento ai liquidatori.

Riferimenti:
- Seppure la possibilità di invocare il rimedio ex art. 2409 c.c. nella fase di liquidazione non sia espressamente previsto dalla legge, ciò è pacifico e costantemente confermato nella giurisprudenza di merito (in questo senso v. da ultimo Trib. Trento, 29/09/2016, in ilsocietario.it, secondo il quale “Lo stato di liquidazione della società […] non è di per sé ostativa all’esercizio dell’azione prevista dall’art. 2409 ed all’adozione dei provvedimenti da essa contemplati”; nello stesso senso, ex multis, App. Salerno, 8/11/2012, in Gir. It., 2013, p. 1109; Trib. Nocera Inferiore, 01/08/2012, in Foro It., 2012, p. 2854; Trib. Novara, 21/05/2012, in ilcaso.it; Trib. Lecco, 11/11/2003, in Giur. milanese, 2004, p. 39; e prima della riforma Trib. Trani, 30/10/2001, in Società, 2002, p. 354; Trib. Como, 19/06/2001, in Giur. di Merito, 2002, p. 998; Trib. Genova, 10/01/1996, in Società, 1996, p. 689; Trib. Milano, 09/04/1990, in Società, 1990, p. 1375; v. pure Cass. 5001/2000, che addirittura afferma che “l'intervenuta cancellazione della società dal registro delle imprese non preclude l'ammissibilità del sindacato dell'autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 2409 c.c. sull'effettiva sussistenza dei presupposti della cancellazione”), nonché dalla dottrina (ex multis, GIANNELLI, cit., p. 1741; VANONI, Denunzia al Tribunale. Art. 2409, in Commentario a cura Busnelli, 2017, pp. 72-77; BERTOLOTTI, Il collegio sindacale e la revisione legale dei conti, in Le nuove s.p.a., diretto da Cagnasso-Panzani, Bologna, 2014, p. 949). Per l’orientamento largamente minoritario, v. Trib. Pisa, 23/05/2001, in Società, 2001, 1223 (con nota di TASSI), secondo cui “E’ inammissibile il ricorso al tribunale promosso ai sensi dell’art. 2409 c.c. nei confronti dei liquidatori di una società di capitali, in quanto tale procedimento è incompatibile con il fine di rimuovere le irregolarità imputate ai liquidatori e/o, se del caso, i liquidatori medesimi, contro i quali l’ordinamento appresta il diverso strumento di tutela disciplinato dall’art. 2450 comma 4 c.c.”.

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