Legittimazione a far valere l'obbligo del socio verso la società in concordato poi fallita
Legittimazione attiva della curatela a far valere l’obbligo del socio a integrare direttamente l’attivo della società in concordato preventivo poi fallita
Trib. Milano, 1 febbraio 2021. La controversia in esame trae origine dall’obbligo assunto dal presidente del c.d.a., nonché socio di controllo, di una s.p.a. in crisi al versamento di certe somme in favore dei creditori privilegiati della stessa entro il termine di un anno circa dal passaggio in giudicato del decreto di omologazione del concordato preventivo. All’emissione dell’omologa è però seguito, pochi mesi più tardi, il fallimento della società; sicché, di fronte al mancato spontaneo adempimento da parte del socio alle obbligazioni in precedenza assunte, il curatore fallimentare ha chiesto e ottenuto nei suoi confronti un decreto ingiuntivo. Quest’ultimo è stato poi oggetto di un giudizio di opposizione, il quale si è concluso con il rigetto dell’opposizione proposta e la conferma del decreto ingiuntivo con la sentenza in commento.
Della vicenda risulta particolarmente interessante l’eccezione, rilevata d’ufficio, circa la mancanza di legittimazione attiva del curatore a far valere nei confronti del socio l’obbligo da questo assunto verso i creditori privilegiati, atteso quanto stabilito dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 11396 del 2009 in materia di garanzia prestata da terzi per l’adempimento delle obbligazioni del debitore, successivamente fallito. In particolare, secondo i giudici di legittimità "in caso di dichiarazione di fallimento conseguente alla risoluzione di un concordato preventivo accompagnato da garanzia prestata da terzi per l'adempimento delle obbligazioni assunte dal debitore, la legittimazione ad agire nei confronti del garante non compete al curatore del fallimento, bensì individualmente ai creditori che risultino tali sin dall'atto dell'apertura della procedura concordataria".
Tuttavia, contrariamente a quanto rilevato d’ufficio, nella sentenza il Tribunale ha poi riconosciuto la legittimazione attiva in capo alla curatela fallimentare. E ciò in quanto bisogna operare una distinzione concettuale tra la garanzia prestata dal terzo in favore dei creditori della società ammessa al concordato preventivo e l’obbligo di integrazione dell’attivo del concordato preventivo da parte del terzo prestato nei diretti riguardi della società in crisi.
Seguendo infatti quanto rilevato dalla curatela nelle proprie difese, nella crisi possono venire in rilievo due diverse tipologie di “finanza esterna”, cioè due distinti strumenti di intervento da parte di soggetti diversi dal debitore a sostegno dell’iniziativa concordataria.
Da un lato, si collocano le garanzie concesse da terzi come apporto destinato al successo della proposta, rafforzandone la fattibilità, con le quali vengono appunto garantite le obbligazioni del debitore inserite nel piano. Dall’altro lato, si registrano ipotesi di veri e propri apporti economici alla società da parte del terzo: tra questi, rientrano i finanziamenti dell’impresa in crisi da parte di banche o intermediari finanziari e il finanziamento da parte dei soci con apporti di capitale di credito o con apporti di capitale di rischio (ad es. conferimenti, versamenti in conto capitale), a cui si aggiungono le figure più complesse dell’istituzione di un trust o di un patrimonio destinato.
In tale quadro, accanto alle ipotesi in cui il finanziamento fa nascere obblighi di remunerazione e rimborso, esistono anche forme di apporto – di frequente realizzazione pratica – che vengono comunemente definite liberali, gratuite o a fondo perduto: il debitore cioè mette a disposizione dell’imprenditore in crisi somme di denaro (ma anche beni in natura o servizi) senza vincoli di restituzione o rimborso. Non si tratta, peraltro, solo di fenomeni della prassi: queste forme di attribuzioni sono riconosciute espressamente anche dallo stesso legislatore, come attestato dall’art. 182 quinquies, co. 5, l.fall. Comunemente, tali attribuzioni “a fondo perduto” provengono da soggetti vicini al debitore e interessati ad evitarne il fallimento come soci, amministratori e parenti o familiari di questi ultimi: tali soggetti sono disposti ad attingere ai propri patrimoni personali nella misura in cui l’esborso gratuito abbia come contropartita l’approvazione del piano.
Di tal che, allorquando – come nel caso di specie – vi siano elementi specifici alla luce del quale l’impegno assunto dal terzo debba essere qualificato come una diretta obbligazione di pagamento a favore delle casse della procedura concordataria prima e fallimentare poi, si deve escludere l’applicabilità dell’orientamento giurisprudenziale delle Sezioni Unite già richiamato. In particolare, da un punto di vista sistematico, depone in tal senso la circostanza che, al fine di inquadrare la fattispecie in esame nel novero delle garanzie, nel testo dell’accordo avrebbe dovuto essere disciplinato il diritto di regresso ex art. 1950 c.c. nei confronti del debitore garantito (e, dunque, della società in concordato). Diritto di regresso che, nel caso concreto, mancava.
Riferimenti:
- Sulla c.d. “finanza esterna”, cfr. TERENGHI, “Finanza esterna”, ordine delle cause di prelazione e flussi di cassa nel concordato con continuità, in Il fallimento, 2019, p. 381; VITIELLO, Il concetto di finanza esterna nel concordato preventivo: fattispecie problematiche, in ilfallimentarista.it, 11.05.2015, secondo cui: “L’esistenza di risorse estranee al patrimonio del debitore che intenda definire la crisi della sua impresa con la procedura concorsuale del concordato preventivo è, come noto, un elemento che qualifica positivamente il piano, consentendo che il soddisfacimento del ceto creditorio discenda, oltre che dai flussi di cassa derivanti dalla liquidazione del patrimonio del debitore e/o dalla prosecuzione dell’impresa, anche dalla cd. finanza esterna”. Per una rassegna dei diversi strumenti di intervento esterno: BASSI, La «finanza esterna» nel concordato preventivo tra finanziamento del debitore e finanziamento della iniziativa, in Giur. Comm., 2019, pag. 181.
- Sul tema della garanzia del terzo in favore dei creditori della società, v. NARDECCHIA, Il terzo nel concordato, in Il Fallimento, 2017, pag. 1071. Per un commento a Cass. civ., sez. un., n. 11396 del 2009: SPIOTTA, Legittimazione ad escutere le garanzie prestate da terzi per un concordato preventivo risolto e sfociato in fallimento, in Giur. comm., 2010, pag. 468.
Escussione abusiva di garanzia bancaria
Canone di locazione commerciale, lockdown ed escussione abusiva di fideiussione bancaria
Trib. Roma, 27 ottobre 2020. Si segnala questa recentissima pronuncia, che ha inibito al locatore di escutere la fideiussione a prima richiesta emessa a protezione del diritto a ricevere i canoni locati, ritenendo la suddetta escussione, intimata per lettera, “abusiva” in quanto in violazione del canone di buona fede. In particolare, nella specie la violazione sembra essere consistita, a opinione del giudice, nel “non avere mostrato alcuna disponibilità a rinegoziare le condizioni del rapporto, alla luce delle sopravvenute circostanze oggettive di indiscutibile impatto sull’equilibrio del rapporto”. In altre parole, per i giudici romani l’emergenza del lockdown imponeva al locatore in buona fede una valutazione di una (temporanea?) riduzione del canone, e (sembra) una parallela sospensione dei collegati originari termini di pagamento, cosicché la richiesta alla banca di ricevere un pagamento correlato a detti termini si configurerebbe come abuso dello ius scrictum in una situazione di sua difformità rispetto alle condizioni sostanziali.
La pronuncia si inscrive nell’orientamento, di per sé ormai ricevuto (e granitico), per cui la pretesa di pagamento di una garanzia autonoma da parte del suo beneficiario è paralizzabile dalla banca con l’exceptio doli, cosicché il medesimo rimedio può fondare la richiesta di inibitoria verso la banca, ex art. 700 c.p.c. a effettuare il pagamento. Particolarità del caso concreto è che l’abuso (per contrarietà a buona fede) nella pretesa di azionare il diritto di credito garantito sarebbe fondato su un’ulteriore lesione dell’obbligo di buona fede, che ex art. 1375 c.c. in thesi nella specie imponeva al locatore di rinegoziare il canone o quanto meno valutare la sussistenza di altri presupposti di una rinegoziazione (in base alla presupposizione? O a una interpretazione estensiva dell’art. 1581?), dato il sopravvenuto mutamento nella oggettiva possibilità di godimento del bene locato (nell’utilizzo concordato).