Misure protettive e cautelari nell’ambito della composizione negoziata della crisi di impresa
Trib. Varese, 24 aprile 2023. L’ordinanza allegata viene segnalata perché offre un’interessante disamina dei presupposti oggettivi e soggettivi necessari per ottenere la conferma delle misure protettive tipiche e, soprattutto, un approfondimento sui requisiti per la concessione delle misure cautelari atipiche nell’ambito di una procedura di composizione negoziata della crisi di impresa ai sensi degli artt. 12 e ss. CCII.
Nel caso esaminato dal Tribunale di Varese, tramite ricorso ex art. 19 CCII una società aveva chiesto di confermare le misure protettive tipiche di cui all’art. 18 CCII nei confronti di tutti i propri creditori, nonché di concedere una serie di misure cautelari consistenti principalmente nella moratoria dell’addebito degli interessi passivi dei rapporti contrattuali di conto anticipo/sconto fatture, nonché dell’addebito delle rate dei canoni di locazione finanziaria dovuti in forza di contratti sottoscritti con istituti finanziari e società di leasing (la società richiedeva anche l’inibitoria all’escussione delle garanzie correlate ai contratti di finanziamenti e di leasing e l’inibitoria di qualsiasi segnalazione alla Centrale Rischi della Banca d’Italia).
La premessa da cui muove il Giudice è che, ai fini della conferma delle misure protettive, è necessario che la società debitrice dimostri l’esistenza di una concreta prospettiva di risanamento – intesa come ragionevole probabilità che l’impresa superi gli squilibri finanziari, patrimoniali ed economici in corso – e, al contempo, la sussistenza del rischio che la mancata concessione delle misure possa pregiudicare l’andamento e il buon esito delle trattative.
Nella fattispecie delibata, il Tribunale ha ritenuto che i citati presupposti non sussistessero, mancando in primis un’adeguata dimostrazione di concrete prospettive di risanamento: da un lato, l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a fronteggiare le obbligazioni e il rapporto costi/ricavi in disequilibrio negativo facevano apparire come irreversibile lo stato di crisi; dall’altro lato, il piano di risanamento formulato dalla società non si dimostrava concreto e ragionevole, contenendo solamente una rappresentazione generica degli interventi ipotizzati per il superamento della crisi ed essendo, di fatto, basato esclusivamente sulla ricerca di un terzo investitore, senza fornire prova di aver ottenuto serie manifestazioni di interesse, né di aver avviato le trattative con i creditori. In un contesto in cui il Giudice è chiamato a operare un bilanciamento tra l’interesse del debitore a conseguire il risanamento e le aspettative dei creditori, nell’ipotesi in cui il piano formulato dalla società ricorrente non appaia offrire serie prospettive di risanamento né assicurare un miglior soddisfacimento delle ragioni dei creditori, non è possibile comprimere i diritti di credito.
Inoltre, dovendo l’indagine giudiziale estendersi alla verifica della strumentalità delle misure, cioè della loro utilità ad assicurare il buon andamento delle trattative, la società ricorrente non può limitarsi a dimostrare di aver fornito, nelle more, ai creditori una mera rappresentazione della propria situazione, dovendo gli stessi essere messi nelle condizioni di interloquire rispetto al piano di risanamento e di valutare proposte specifiche.
Interessante è poi la motivazione spesa per rigettare la richiesta di concessione delle misure cautelari, per la cui delibazione il Giudice ritiene sia richiesta una verifica rafforzata in relazione alla loro effettiva strumentalità rispetto agli scopi della procedura, data la loro natura di misure atipiche e innominate.
I provvedimenti cautelari – afferma il Tribunale di Varese – possono avere effetti inibitori sui diritti di creditori e terzi, ma non consentono di ottenere coattivamente l’esecuzione di nuove prestazioni, il conseguimento di utilità altrimenti non dovute o l’instaurazione di rapporti giuridici ex novo (in tal senso, ad esempio, si esclude la possibilità di ottenere nuovi affidamenti bancari o la reviviscenza di contratti già risolti).
Sulla base di tale premessa, è stata giudicata non meritevole di accoglimento la richiesta cautelare della società ricorrente finalizzata a ottenere la sospensione unilaterale delle proprie prestazioni contrattuali di pagamento, ferma l’efficacia dei contratti cui le stesse erano riconnesse: a fronte di una misura simile, infatti, i creditori avrebbero dovuto continuare ad eseguire le proprie prestazioni (peraltro già completate con la concessione del finanziamento o la consegna del bene in leasing) senza poter ricevere la controprestazione, nell’ambito di un meccanismo finalizzato ad anticipare coattivamente la futura rinegoziazione dei contratti di finanziamento e di locazione finanziaria senza il consenso dell’altro contraente e senza la previsione di un indennizzo o altre forme di compensazione.
In buona sostanza, il Giudice varesino ha ritenuto non condivisibile la tesi della ricorrente secondo cui potrebbero validamente sussumersi nel novero delle misure cautelari tutti i provvedimenti che consentano al debitore di conseguire gli obiettivi prefissati con l’avvio della procedura di composizione negoziata; e per motivare la propria posizione e il rigetto della domanda, ha dichiarato apertamente di non condividere l’orientamento espresso dal Tribunale di Milano e invocato dalla debitrice a proprio sostegno, secondo il quale sarebbe da ritenersi ammissibile una misura cautelare volta ad ottenere la sospensione dei contratti di finanziamento per un dato arco temporale, stante la necessità di coltivare le trattative senza il pericolo di vulnera al principio della par condicio creditorum e di favorire la ripresa dell’attività produttiva.
Nella pronuncia che si segnala, il Giudice ha ritenuto di sposare la tesi di un altro filone giurisprudenziale secondo cui la misura cautelare di cui all’art. 18, comma 5, CCII, “non può andare oltre l’ambito della previsione stessa, così come limitata al mancato pagamento dei crediti anteriori, là dove il legislatore, nel dare in tal modo definizione alla fattispecie, ha contestualmente omesso di assegnare al giudice il potere di estendere gli effetti protettivi anche in relazione al caso del mancato pagamento dei debiti in scadenza nel corso delle trattative” e non può comportare “una significativa alterazione del sinallagma contrattuale, implica[ndo] un intervento nell’ambito della sfera di autonomia delle parti che deve ritenersi precluso al giudice (si ricordi che, nell’ambito del concordato preventivo, si ritiene che oggetto di sospensione possa essere solamente l’intero rapporto contrattuale, e non anche la singola obbligazione corrispettiva), occorrendo al contempo osservare che la debitrice, rispetto all’eventuale inadempimento, è già protetta dal divieto di azioni esecutive”.
In aggiunta, nel provvedimento in esame si afferma che non è consentito al Tribunale, allo scopo di consentire lo svolgimento delle trattative, “sostituirsi” alla volontà delle parti e anticipare coattivamente effetti (nella specie, la rinegoziazione dei rapporti contrattuali) che restano rimessi alla libera contrattazione delle parti. Tale conclusione viene ricavata dalla circostanza per cui, mentre una disposizione di carattere eccezionale (art. 10, comma 2) del d.l. n. 118/2021 e legata all’emergenza COVID consentiva al Tribunale di esercitare un potere di riequilibrio contrattuale, il Codice della Crisi si limita a prevedere un mero potere di sollecitazione da parte dell’esperto (art. 17, comma 5); ciò che consente di affermare che, al di fuori dei casi espressamente previsti dal legislatore, l’autonomia contrattuale delle parti non possa essere conformata ab externo.